La social collaboration per ottimizzare la gestione del team ibrido
Da più parti si fa strada un modello di lavoro ibrido come logica evoluzione dello smart working e soprattutto del jail-working (lavoro remoto chiusi in casa) attuato durante il periodo pandemico. Il lavoro ibrido si basa sulla capacità di gestire team di persone che operano in luoghi diversi, in tempi diversi e con strumenti diversi, non solo attraverso l’uso di particolari software (che comunque sono utili allo scopo) ma, e soprattutto, con una rinnovata cultura manageriale e una visione che siano in grado di riportare le persone al centro dei processi di innovazione
3 Giugno 2021
Gianluigi Cogo
Esperto di processi di innovazione
Mi accingo a scrivere questo articolo dopo una stagione di consulenza, formazione e coaching sui modelli emergenti di organizzazione del lavoro, fortemente condizionati dallo scossone indotto dalla recente pandemia. Provo a mettere in fila una serie di concetti utili a intraprendere il percorso che dovrebbe portarci a una nuova normalità, più umana, più bilanciata e ovviamente più collaborativa e attenta alla socialità, in cui quindi si inserisce il tema della social collaboration.
Il lavoro ibrido
Da più parti si fa strada un modello di lavoro ibrido come logica evoluzione dello smart working e soprattutto del jail-working (lavoro remoto chiusi in casa) attuato durante il periodo pandemico. E’ un modello che probabilmente si affermerà come prevalente nel new normal perché in grado di garantire equilibrio fra le funzioni esercitabili in presenza e quelle che non necessitano di un presidio continuo in ufficio.
Di fatto il lavoro ibrido è una combinazione di lavoro a distanza e lavoro in presenza che non presuppone la definizione di rigide percentuali di soggetti da assegnare all’una o all’altra modalità e, fondamentalmente, si basa sulla capacità di gestire team di persone che operano in luoghi diversi, in tempi diversi e con strumenti diversi, non solo attraverso l’uso di particolari software (che comunque sono utili allo scopo) ma, e soprattutto, con una rinnovata cultura manageriale e una visione che siano in grado di riportare le persone al centro dei processi di innovazione.
Prendendo poi spunto dalle mutate esigenze dei lavoratori, soprattutto in riferimento al life balance, e dalla consapevolezza che gli stessi hanno maturato durante il periodo di lavoro da remoto forzoso, quando hanno constatato come sia di fatto possibile esercitare molte attività senza doversi recare in ufficio, possiamo assolutamente prendere atto che il ricorso al lavoro ibrido permetterà finalmente alle organizzazioni di diventare più umane e soprattutto più competitive.
Umanizzare le organizzazioni
A proposito di organizzazione umana (come riferimento all’insieme delle relazioni che si creano tra i soggetti che operano all’interno dell’organizzazione e il sistema di gestione delle informazioni e della comunicazione aziendale) credo sia doveroso porre l’accento sul ruolo dei manager e sulla loro capacità di evolvere da semplici capi a leader trainanti e motivanti dei team ibridi.
Queste capacità vanno indubbiamente allenate attraverso processi di upskilling, soprattutto per stimolare le abilità relazionali, comunicative ed empatiche. Insomma, formandoli e, ancora, convincendoli che le cosiddette abilità soft sono oggi di gran lunga più importanti di quelle hard e/o verticali.
Per fare ciò dobbiamo sforzarci tutti di vedere le organizzazioni in cui operiamo come delle comunità che, inevitabilmente, tendono a plasmare le nostre identità, i nostri obiettivi (anche personali) e incidono sul nostro senso di appartenenza.
Il ruolo di chi ha funzioni di coordinamento nel team diventa dunque strategico in questa prospettiva e in questa visione di organizzazione umanizzata, sociale e giusta. Il manager, come affermò Peter Drucker deve fare un salto di qualità e porsi come leader e trascinatore della squadra che coordina: ”Management is doing things right; leadership is doing the right things” (Essere manager significa fare le cose in modo corretto; essere leader significa fare le cose giuste).
La trasformazione digitale
Va comunque rilevato che nella prospettiva di adesione a questi scenari innovativi, ma al tempo stesso altamente etici, le funzionalità operative del team debbano poggiarsi su tutto ciò che il digitale oggi offre e che, con il recente boost di adozione indotto dalla pandemia, riesce a garantire attraverso servizi cloud migliorati in termini di maturità, usabilità e disponibilità.
La trasformazione digitale è un percorso iniziato tardi nel nostro paese ma che mai come adesso, anche grazie ai fondi dedicati nel PNRR (43,55 miliardi di euro) può rappresentare una svolta per traghettare le organizzazioni verso un nuovo modo di gestire persone, progetti e processi.
Con la pandemia nelle case di tutti i remote worker sono entrati strumenti non nuovi, ma rapidamente maturati e migliorati come ad esempio i sistemi di condivisione in cloud dei documenti, i sistemi di accesso a scrivanie virtuali e remote, i sistemi di collaborazione sincrona quali le web conference e pian piano anche strumenti di task assignment & management che solo chi si occupava di project management, aveva già sperimentato in passato.
Molte applicazioni legacy son state remotizzate o cloudizzate e quasi tutte rese disponibili nella modalità mobile first, quindi con ampia facilità d’uso attraverso i terminali mobili come smartphone e tablet.
E’ un processo ormai ineludibile che continuerà a migliorare il nostro modo di lavorare e che, per fortuna, aderisce in pieno al principio dell’IT consumerization, ovvero ‘al riorientamento di progetti, di prodotti e di servizi per concentrarsi sull’utente finale come singolo consumatore, in contrasto con un’era precedente di sole offerte orientate all’organizzazione’ (fonte).
E’ in sintesi il principio per il quale ognuno di noi desidera sfruttare la stessa user experience per i prodotti e i servizi digitali in azienda come a casa. E non è cosa da poco, perchè ciò introduce al tema della Social Collaboration, ovvero alle funzionalità che i servizi in cloud offrono, mutuando l’esperienza dei social network e ricollocando le persone al centro dei processi organizzativi.
La social collaboration
Non è comunque, quello della Social Collaboration, un paradigma basato solo sugli strumenti. Infatti per poterne sfruttare al massimo i vantaggi è necessario dare una connotazione social ad ogni attività dell’organizzazione. E qui entrano in campo due principi fondamentali: la condivisione della conoscenza (TUTTA) e la collaborazione (DI TUTTI).
Solo con la piena adesione a questi due principi, si può addivenire a una organizzazione social che può finalmente introdurre strumenti fortemente abilitanti che si avvantaggiano di una consolidata esperienza intuitiva come quella offerta dai principali social network.
Non è un caso che molti dei player oggi protagonisti di questa rivoluzione siano delle internet company, ovvero aziende multinazionali nate sul web e consolidatesi con l’affermazione sociale del web, quella che fino a poco tempo fa etichettavamo come Web 2.0.
Strumenti come Microsoft Teams, Slack, Google Workspace ma persino Facebook workspace e moltissimi altri sono derivazione diretta di esperienze nate per le persone e non per le organizzazioni, che poi sono evoluti in veri e propri sistemi di gestione dei progetti, delle attività e della collaborazione sul cloud.
Essi sfruttano il principio della beta perpetua, si avvantaggiano dei feedback costanti di milioni di utenti sparsi in ogni dove e, grazie all’intelligenza artificiale, sono in grado di migliorare le loro capacità propositive e predittive.
Gli strumenti di Social Collaboration sono esplosi nell’uso durante la recente pandemia e dunque sfruttati al meglio dai remote worker e oggi son qui per restare e per aiutare i team ibridi a gestire al meglio le attività di tutti i giorni.
Il metodo Toyota e le schede Kanban
Il lavoro ibrido, come logica evoluzione ed integrazione del lavoro agile, presuppone un costante monitoraggio delle attività del team al fine di garantire una valutazione costante sull’andamento dei progetti in carico allo stesso e una misurazione delle performance individuali per gli assegnatari dei task, nonchè delle performance complessive di tutto il gruppo.
Tale metodo consente anche di verificare se gli obiettivi prefissati siano realistici o piuttosto vadano rivisti ed adeguati alle criticità o alle variabili di percorso (azioni correttive).
In pratica, gli obiettivi vengono rappresentati visivamente su una lavagna(definita come Kanban board) che consente a tutti i componenti del team di condividere lo stato di avanzamento di tutte le attività che concorrono al raggiungimento degli obiettivi stessi.
Il termine Kanban deriva da due termini giapponesi “kan” che significa “visuale” e “ban” che significa “segnale”. E’ stato ideato da Taiichi Ohno, padre del famoso metodo Toyota, ovvero il TPS, usato per gestire i sistemi di produzione just in time.
La lavagna Kanban è diventata, durante la pandemia, un riferimento e uno strumento nuovo per molti lavoratori che si son trovati improvvisamente ad operare da remoto. E’ stata molto apprezzata laddove si è avuto il coraggio di utilizzarla per gestire i task in sostituzione dei noiosi report giornalieri che molte organizzazioni si sono letteralmente inventate con l’ausilio di fogli di calcolo o del calendario in cloud.
Pur essendo patrimonio, anche culturale, di chi gestisce progetti, la lavagna Kanban nel breve è diventata strumento utile anche per chi deve gestire processi e team da remoto, in quanto si è percepita la sua utilità nel visualizzare i progressi delle attività, limitare le sovrapposizioni e massimizzare l’efficienza dei processi attraverso la gestione dei flussi.
Molti sono i software, quasi tutti in cloud, che già permettono di gestire le assegnazioni dei task e il relativo monitoraggio. Fra questi val la pena citare quelli che durante la pandemia son stati scoperti anche dai non addetti ai lavori: Trello, Asana, Wrike, Basecamp, Microsoft Planner, Jira e tantissimi altri. Nel mio girovagare per il web ho trovato un articolo che ne elenca addirittura 254. Ciò probabilmente significa che il settore è in pieno fermento e il ricorso massivo al lavoro da remoto lo ha rilanciato alla grande.
Ovviamente quasi tutti questi software/servizi fanno ricorso alla citata scheda Kanban e non potrebbe essere altrimenti.
I micromanager sempre in agguato
E’ indubbio che per gestire un team ibrido moderno e convintamente innovativo servono dei leader motivanti in grado di trasmettere entusiasmo e soprattutto visione.
E’ atteso dunque che i manager si predispongano con un mindset positivo e aperto, un minsdset che riesca ad abbandonare per sempre tentazioni da capo stile command & control, in favore di aperture ampie alla responsabilità, all’autonomia e alla creatività dei singoli componenti del team.
Purtroppo non esiste una bacchetta magica per trasformare un capo in leader. Tuttavia esistono iniziative e momenti allenanti (formazione, coaching, best practice, ecc.) che contribuiscono a far evolvere in tal senso chi non possieda già i cromosomi del leader nel proprio DNA.
In sintesi servono manager che sappiano valorizzare i ruoli e le competenze nel team e siano soprattutto in grado di orchestrare persone e idee che si muovono in libertà e in autonomia nella modalità ibrida, la quale prevede apporti da luoghi diversi, in tempi diversi e con strumentazioni, software e servizi diversi.
Spesso nei miei corsi uso questa slide per riassumere con alcune keyword il vero leader. Non è esaustiva, ma può essere una base di partenza per autovalutarsi.
Purtroppo, specialmente nel nostro paese, la resistenza a prescindere e, soprattutto, la comodità di mantenere intatta la comfort zone di riferimento, creano moltissimi ostacoli allo sviluppo di team ibridi.
I micromanager sono sempre in agguato e minano pesantemente l’evoluzione dei modelli organizzativi. Essi sono uno dei principali ostacoli allo sviluppo di culture manageriali innovative e visionarie in quanto considerano l’autonomia e la creatività dei singoli componenti del team una minaccia alla loro carriera e una messa in discussione del loro ruolo di comandante in capo.
Tempo fa ho intercettato una definizione del micromanager che ho subito fatto mia e ricondiviso nelle slide che uso per la formazione e sfrutto come base di discussione durante le mie consulenze di accompagnamento agli HR.
Come riconoscere il micromanagement
Non bisogna sicuramente confondere periodi di grandi carichi lavorativi in cui il rapporto col proprio superiore può “scricchiolare” con il micromanagement.
Questo si può riconoscere però, attraverso specifici atteggiamenti:
Vi fanno perdere nei report — Per timore di perdere il controllo, il micromanager chiede costanti report, che vi faranno perdere tempo e che non mostreranno nemmeno miglioramenti, dato che saranno più del necessario.
Non sanno delegare — I micromanager sono convinti di saper fare meglio degli altri, così mettono sempre mano al vostro lavoro, perdendo ulteriore tempo in rifacimenti e riscritture, invece di indicarvi semplicemente cosa può essere migliorato.
Bruciano la forza del team — Si lamentano costantemente del lavoro dei propri sottoposti per così avere prova della loro “superiorità”, trovando sempre errori nel lavoro fatto dagli altri. Così scoraggiano il team e lo “perseguitano”, chiedendo di essere messi in copia anche a mail che potrebbero ignorare.
Sono ossessionati dai dettagli — Invece di vedere la big picture nei progetti, vi correggono ogni piccola virgola: dato che siete dei professionisti assunti apposta per gestire determinati aspetti e prendere decisioni, se il vostro superiore vi mette inoltre nella condizione di chiedere la sua approvazione su ogni singola azione, probabilmente è un micromanager.
Il new normal (luci ed ombre)
Come si presenterà il new normal è difficile immaginarlo, anche se si intravedono alcune luci fra le tante ombre e la voglia di ritornare al passato, comodo, confortevole e poco rischioso.
Ci sono segnali positivi che fanno prevedere uno sviluppo lento ma inesorabile del lavoro ibrido grazie all’ausilio della social collaboration. Molte organizzazioni stanno già riducendo le postazioni e gli spazi fissi. Altre iniziano ad utilizzare luoghi condivisi per incentivare il nearworking.
Molti operatori privati (bar, ristoranti, banche, palestre, ecc.) hanno già implementato corner dedicati ai nomad worker.
Borghi, malghe, villaggi turistici e operatori stanno dando impulso all’holiday working (altra forma di ibridazione in progress) che, se pur discutibile come approccio, mette in ulteriore risalto il tema del life balance e le sue traiettorie di sviluppo.
Intraprendere un percorso che riveda i modelli organizzativi mettendo al centro le persone e i loro bisogni è sicuramente irto di ostacoli, ma mai come oggi è supportato da indubbie opportunità e da un numero sorprendente di strumenti che lo sostengono e lo abilitano. Sta a noi tutti decidere cosa è meglio per la nostra vita, per il nostro benessere e per il benessere della nostra organizzazione.