Mio figlio ha occupato il suo Liceo

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Mio figlio, quasi diciottenne, ha occupato il suo Liceo a Roma assieme ad un gruppo di studenti. Alla mia richiesta di spiegarmi le sue ragioni mi ha risposto che sono molto arrabbiati con il Governo, ma non sanno bene perché, tranne che gli sembra di non avere futuro, che gli abbiano “espropriato i sogni”. Io anche sono molto arrabbiato, ma a differenza sua il perché lo so, anche se sono dubbioso che l’occupazione sia la miglior cosa da fare. So infatti che, come diceva il mio compianto amico Paolo Zocchi, “l’Italia non è un Paese per i giovani”. Qualche dato, perché è bene partire dai fatti.

21 Novembre 2013

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

Mio figlio ha occupato il suo Liceo. A questa notizia la prima risposta che mi aspetto è: “… e chi se ne frega!”. Ma vi prego invece di seguire il mio ragionamento, perché vorrei prendere spunto da questo episodio familiare per interrogarci insieme su alcuni aspetti delle politiche pubbliche. Mio figlio quasi diciottenne, dicevo, ha occupato il suo Liceo a Roma assieme ad un gruppo di studenti. Alla mia richiesta di spiegarmi le sue ragioni mi ha risposto che sono molto arrabbiati con il Governo, ma non sanno bene perché, tranne che gli sembra di non avere futuro, che gli abbiano “espropriato i sogni”. Io anche sono molto arrabbiato, ma a differenza sua il perché lo so, anche se sono dubbioso che l’occupazione sia la miglior cosa da fare. So infatti che, come diceva il mio compianto amico Paolo Zocchi, “l’Italia non è un Paese per i giovani”. Qualche dato perché è bene partire dai fatti. Cercherò di non esagerare perché sono veramente impressionanti e da prendere assieme ad una buona dose di antidepressivi.

Ecco qualche numero tra i tantissimi che potrei citare:

1.     Con il 20,3% dei giovani tra i 30 e i 34 anni laureati, l’Italia è all’ultimo posto nella classifica dell’Europa a 27 (primi Irlanda, Lussemburgo, Svezia e Finlandia; ultimi, ma prima di noi, Slovacchia, Malta e Romania).

2.     Con il 22,7% di ragazzi tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano (oltre due milioni) l’Italia è terza nella poco lusinghiera classifica europea capitanata da Bulgaria e Grecia. I più virtuosi sono Paesi Bassi, Lussemburgo e Danimarca.

3.     I primi risultati dell’indagine Isfol-Piaac (Programme for the international assessment of adult competencies) evidenziano che l’Italia è all’ultimo posto in Europa per competenze alfabetiche e penultima nel campo delle competenze matematiche. Ma questo non è un destino crudele che ci perseguita: è il risultato di scelte precise.

4.     La spesa primaria per l’Istruzione (come certificata dalla RGS ) vede l’Italia al quint’ultimo posto nell’Europa a 27 con il 4,2% del PIL nel 2011 (era il 4,6% nel 2009 e il 4,5% nel 2010). Peggio di noi solo Grecia, Romania, Slovacchia e Romania. Tutti gli altri meglio.

5.    Passando all’innovazione, che è l’unico ecosistema dove si potrà sviluppare nuova occupazione, l’Italia con solo il 37% di lavoratori che pensano di avere competenze informatiche sufficienti a cambiar lavoro, è al quart’ultimo posto in Europa (per questo punto e i prossimi due vedi Digital Agenda Scoreboard) sopra solo a Cipro, Grecia e Romania (prima la Svezia con l’86%!).

6.     D’altra parte l’Italia è terza in Europa per numero di famiglie con figli in casa che non hanno accesso a Internet. Praticamente nessuna famiglia con ragazzi in casa è senza connessione in larga banda in tutta l’Europa del Nord, ma anche in UK, Francia e Germania, peggio dell’Italia solo Bulgaria e Romania.

7.     Anche qui siamo però di fronte al risultato di scelte precise: infatti con 8,6% computer ogni 100 studenti l’Italia è fanalino di coda in Europa (solo la Grecia è peggio; in Svezia i computer sono 70 per 100 studenti) e con solo il 19,6% di individui che ha avuto un’educazione ICT a scuola è terz’ultima in Europa. Potrei continuare per pagine e pagine, ma mi fermo qui.

Cosa può fare l’amministrazione pubblica, spesso non direttamente responsabile nelle macro allocazioni di risorse, di fronte a questo disastro? Quattro brevi e umili spunti che valgono per la disoccupazione giovanile, ma credo anche per le tante altre situazioni critiche che abbiamo di fronte, anche se nessuna credo sia più grave di questa, né più urgente.

  • Non negare il problema e monitorare continuamente i dati trasformandoli in informazioni utili: ma se l’Italia non è un Paese adatto ai giovani è ancora meno adatto ai numeri. I dati non ci sono, quando ci sono sono vecchi e non abbastanza dettagliati né per comparto né per dislocazione geografica; inoltre non sono correlati con i dati sugli interventi, per cui diventa impossibile ogni valutazione puntuale e in itinere delle politiche pubbliche. Questo non è però un castigo di Dio, non servono leggi speciali, né un intervento politico: avere dati aggiornati e utili è un compito “tecnico” dell’amministrazione. Non averli è una grave responsabilità, in questo caso addossare la colpa alla politica è segno di grave confusione istituzionale.
  • Non pensare di poter fare tutto da soli in un mondo complesso e interconnesso. Le alleanze pubblico-privato per ora sono solo roba da convegni e la cittadinanza attiva raramente entra lì, dove si prendono decisioni in un processo di co-progettazione dei servizi e degli interventi. Ma lavorare assieme è l’unica strada.
  • Pensare ad una politica come ad un prodotto: va disegnato bene ed eseguito con cura, come nella migliore tradizione del “made in Italy” che, se ci è riuscito benissimo nella moda, ci ha visto sempre molto carenti nelle azioni pubbliche. Che vuol dire curare una politica come un buon prodotto? Essere attenti alla sua forma: se nel design industriale il ruolo delle “forme” è quello di intercettare e dare oggettività ai nuovi desideri (hanno un ruolo di anticipazione), analogamente, nelle policy è necessario passare da logiche (oggi prevalenti se non esclusive) reattive di inseguimento a logiche proattive di anticipazione. Le policy devono trasmettere l’idea che il dispositivo politico-amministrativo è in grado di svolgere un ruolo di leadership sotto il profilo culturale (vision autorevole) e operativo (concept di prodotto innovativo e coerente con la vision). Alla forma è necessario però unire le competenze: nella PA devono entrare assolutamente nuove competenze e nuove professionalità. A forma e competenze infine vanno affiancati nuovi modelli organizzativi. Per tutto questo non serve la politica: non cerchiamo scuse. L’alta dirigenza amministrativa può e deve provvedere, perché questo è il suo fine e la ragione per cui la paghiamo, e non poco.
  • Non accontentarsi delle mezze soluzioni, né delle spiegazioni troppo facili. Oggi la risposta a tutte le istanze è “non ci sono soldi”. Ma siamo sicuri che sia sempre la risposta giusta e non la più sbrigativa? Siamo certi che non si possano fare scelte allocative diverse? Siamo sereni di aver eliminato tutti gli sprechi (è spreco l’uso delle risorse che non produce valore) e tutte le duplicazioni? Abbiamo valutato con attenzione il “costo del non fare”? Quanto costano al Paese in termini di coesione sociale, di crescita del benessere, ma anche banalmente di PIL, i milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano? Credo che se mettessimo veramente sulla bilancia i pesi capiremmo chiaramente che senza investimenti per il futuro dei nostri giovani il Paese non va da nessuna parte. Come per altro hanno capito tutti i Paesi nostri concorrenti.

Un’amministrazione pubblica che, con tutto il suo corpo burocratico, non interviene con coraggio su queste emergenze e butta sempre e solo la colpa sulla “politica”, senza immaginare in proprio percorsi e soluzioni, rischia di essere percepita, ma anche di autopercepirsi come inutile a risolvere i veri temi e utile solo a gestire l’esistente. Ma l’esistente non ci piace: né a me né a mio figlio che, con scarsa consapevolezza ma forte energia, occupa il suo Liceo. 

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