Umanesimo manageriale: una visione innovativa dell’essere dirigente

Home Temi Verticali Lavoro e Occupazione Umanesimo manageriale: una visione innovativa dell’essere dirigente

Con questo bell’intervento di Grazia Mannozzi e Gianni Penzo Doria continuiamo la riflessione sulla managerialità centrata sulle persone che ci ha visto tante volte impegnati, dagli interventi di Luca Attias alle mie considerazioni sui tornelli o sui vigili romani. In questo articolo, dove approcci scientifici si intrecciano a suggestioni artistiche e dove rimane sempre al centro la persona umana e le sue straordinarie potenzialità, ci sono ulteriori spunti, anche operativi, di grande interesse. Ve lo propongo certo che susciterà un interessante dibattito.
Carlo Mochi Sismondi

4 Febbraio 2015

G

Grazia Mannozzi* e Gianni Penzo Doria*

Con questo bell’intervento di Grazia Mannozzi e Gianni Penzo Doria continuiamo la riflessione sulla managerialità centrata sulle persone che ci ha visto tante volte impegnati, dagli interventi di Luca Attias alle mie considerazioni sui tornelli o sui vigili romani. In questo articolo, dove approcci scientifici si intrecciano a suggestioni artistiche e dove rimane sempre al centro la persona umana e le sue straordinarie potenzialità, ci sono ulteriori spunti, anche operativi, di grande interesse. Ve lo propongo certo che susciterà un interessante dibattito.
Carlo Mochi Sismondi


L’articolo presenta un progetto di formazione-intervento per il management delle amministrazioni pubbliche, ma valido anche per il privato. Il punto centrale riguarda il recupero della persona indipendentemente dal ruolo e dai meccanismi della burocrazia. L’Umanesimo manageriale riguarda, inoltre, tutto il personale, ma investe molto sui ruoli di coordinamento organizzativo e utilizza alcuni strumenti della Giustizia riparativa per la risoluzione dei conflitti sul luogo di lavoro. Si tratta di una visione innovativa dell’essere dirigente e di affrontare i temi della trasparenza e dell’anticorruzione, mettendo la persona al centro.

Quand’era sindaco di Brescia, Mino Martinazzoli raccontò un apologo. Con questa storia desideriamo iniziare il percorso di avvicinamento al ruolo dell’Umanesimo manageriale nelle amministrazioni pubbliche moderne, nella speranza consapevole che quanto si dirà può valere per tutte le organizzazioni, pubbliche e private.

Un Direttore Generale di una grande azienda ricevette un invito a un concerto nel quale sarebbe stata eseguita la Sinfonia n. 8 di Schubert, la celebre Incompiuta. Non potendo andare al concerto, perché impegnato in una seduta del Consiglio di amministrazione, egli pensò di offrire quel posto al Capo del personale. Si trattava di un giovane laureato in economia aziendale, con una Master in una università straniera prestigiosa. Si occupava anche di politica, voleva efficienza e managerialità. Egli, ricevuto l’invito, andò al concerto.

Il giorno dopo il Direttore Generale, incontratolo mentre si recava al lavoro, gli chiese se gli fosse piaciuto il concerto della sera precedente e, con sorpresa, si senti rispondere – in modo fermo e deciso – che a mezzogiorno avrebbe ricevuto una relazione dettagliata.

A mezzogiorno in punto la relazione arrivò sulla scrivania, suddivisa in cinque punti:

1) durante un considerevole periodo di tempo i quattro oboe non fanno nulla: si dovrebbe ridurne il numero e distribuirne il lavoro tra il resto dell’orchestra, eliminando i picchi di impiego;

2) i dodici violini replicano la medesima nota, quindi l’organico dei violinisti dovrebbe essere drasticamente ridotto;

3) gli ottoni risultano perlopiù inefficaci, in quanto ripetono suoni già stati eseguiti da altri e, nella fattispecie, dagli archi;

4) se tali passaggi ridondanti fossero eliminati, il concerto potrebbe essere ridotto di almeno un terzo;

5) se il sig. Schubert avesse tenuto conto di queste mia osservazioni avrebbe terminato la sinfonia. 

Martinazzoli chiuse l’apologo con queste parole: «Vorrei vivere in un mondo nel quale si possa continuare a sentire l’incompiuta di Schubert così com’è». Pleonastico probabilmente è dire che di quel Capo del personale non rimase traccia[1].

Per restare nella metafora, come vedremo, l’organizzazione condivisa e il rispetto reciproco tra le persone ci consentono di ascoltare Schubert senza che un aziendalismo di maniera attui la semplificazione come risultato della banalizzazione delle cose e, fatto ben peggiore, partendo da pre-giudizi causati dall’ignoranza della materia, sminuendo il valore che ogni persona porta con sé.

I manager vanno anche a scuola di poesia, contro la corruzione

In una congiuntura in cui l’Italia è tra i paesi europei in cui più dilaga la corruzione, in cui la percezione del funzionario pubblico è legata al concetto del fannullone e in cui i crimini commessi dai colletti bianchi, quand’anche scoperti, rimangono spesso impuniti per prescrizione, serve ripartire dalle basi fondamentali della cultura umanistica e dalla centralità della persona. In buona sostanza, ci salveremo soltanto quando affronteremo il lavoro nel rispetto reciproco, recuperando un’etica delle professioni, maturando il senso della dignità di essere funzionari pubblici. Si tratta di un percorso intellettuale in cui deve emergere la necessità della formazione e dell’aggiornamento professionale come processo continuo e incessante volto al miglioramento di sé, anche a vantaggio dell’organizzazione per cui si lavora.

In ufficio, di norma, si trascorre un terzo del proprio tempo dal lunedì al venerdì. Pensare di andare al lavoro in un clima avverso, anche solo per proprio autoconvincimento, significa fin da subito cominciare male e spesso finire peggio la giornata, accumulando sentimenti di frustrazione, di sconfitta o di rivalsa. Purtroppo, quando il pensiero cognitivo decide che un ambiente è sfavorevole oppure ostile, la percezione delle cose, anche di quelle più belle o perfino neutrali, finirà con l’essere condizionata negativamente. In siffatti contesti, trovano terreno fertile la perdita di interesse, la demotivazione, la delusione, il sospetto e persino il mobbing. Gli esiti sono noti: somatizzazioni, stati d’ansia, livore e atteggiamenti pregiudiziali su qualsiasi questione nei confronti dell’ambiente lavorativo, dei colleghi e, più in generale, dell’ambiente esterno. E quando compaiono queste situazioni di sofferenza personale, è bene innanzitutto focalizzare l’attenzione non tanto sull’individuo quanto piuttosto sul clima dell’ambiente lavorativo e sulla qualità dell’organizzazione. Spesso il sintomo personale può fare da cartina di tornasole del “cattivo morale della truppa”.

L’Umanesimo manageriale è stile che nasce dal recupero del profilo alto della persona e dell’importanza di un tessuto relazionale positivo tra colleghi, indipendentemente dagli incarichi e dalle gerarchie funzionali. Esso mira, in concreto, a far conoscere reciprocamente i colleghi, a partire dalle persone e non dai ruoli. Ciascuno di noi, infatti, non ha come esclusivo riferimento personalistico la vita lavorativa: coltiva interessi, vive un ambiente familiare, gode di amicizie, si rapporta con il resto del mondo al di fuori dell’ufficio. Con l’Umanesimo manageriale si realizza il pensiero laterale, la consapevolezza della diversità di interessi, conoscenze, logiche di azioni; in una parola, si creano le possibilità di integrare e integrarsi nel lavoro attraverso le diversità dell’extra lavoro.

Ognuno di noi, dunque, rappresenta un universo a sé, possiede una ricchezza interiore che va compresa, condivisa, messa a frutto e a fattor comune. C’è chi canta (un soprano, un baritono), chi è esperto in cucina (per dolci, per antipasti), chi suona uno strumento (un sax, una chitarra), chi svolge attività di volontariato (donatore di sangue, assistenza ad anziani), chi scrive racconti fantastici o si appassiona a spiegare poesie. Ma talenti, capacità e interessi raramente emergono nelle dinamiche degli ambienti di lavoro, dove si staglia grigiamente il ruolo. Paradossalmente il luogo di lavoro può persino trasformare il mite dott. Jekill in Mr. Hyde o viceversa!

Raccontare di sé – andare fuori da sé e narrare se stessi ai propri colleghi – ha un impatto emotivo formidabile. Da quel momento un lavoratore non è più “soltanto” un impiegato di categoria C o D con o senza posizione organizzativa, ma una persona. Le relazioni intellettuali, le relazioni interpersonali sono quelle più stimolanti per i rapporti umani. Il tutto basato sull’applicazione e la diffusione della cultura, anzi delle culture, nel senso più ampio e nobile del termine. Dopo aver visto qualcuno a cui si è soliti abbinare un contesto in maniera meccanica (una scrivania, un atteggiamento durante la firma o in una riunione) all’interno di altri contesti, il luogo di lavoro diventa altro e inventa percezioni nuove, meno ingessate e più favorevoli al miglioramento del clima organizzativo generale.

Un buon manager, dunque, non deve conoscere solo il primo movimento della 5ª Sinfonia di Beethoven, ma anche gli altri tre. È bello che conosca Pascoli oppure Montale, ma anche Walt Witman. Esiste solo buona musica: per questo, l’Umanesimo manageriale prevede l’ascolto di Schubert ma anche di Bryan Adams, di Bach ma anche dei Doors, di Vivaldi ma anche di Battisti. Chi ascolta Mozart e ne condivide la bellezza con gli altri ha maggiori probabilità di non essere un corrotto, perché perdere la faccia in un ambiente impersonale, fatto solo di adempimenti burocratici, impone un clima asettico, suscettibile di essere violato con minori sforzi emotivi. Deludere una persona e avere contezza di aver deluso la fiducia ha un costo morale per chi vive in un ambiente lavorativo in cui le relazioni umane sono autentiche e ritenute essenziali.

Non di sole procedure vive l’Amministrazione

Un buon manager deve certamente preoccuparsi di affinare le procedure, velocizzare i processi e non perdere tempo sui procedimenti amministrativi. Tuttavia, può riuscire a farlo esclusivamente mettendo al centro di queste azioni le persone. La centralità del trattare bene i colleghi, con garbo, con gentilezza è una risorsa fondamentale che cresce continuamente solo se alimentata da fattori simili. Gentilezza e garbo richiamano e si alimentano loro stesse, così come la correttezza e l’etica professionale possono innescare circoli virtuosi. Quando Michael Hammer presentò al mondo assieme a James Champy il business process reengineering (BPR) lo fece come descrizione di un lavoro. Per quanto geniale, sarebbe rimasta emotivamente poco più di una job description. Qualche anno dopo ben si accorse della distorsione e, in un celebre articolo, chiese scusa a tutti. Scusa per aver omesso un fattore fondamentale di successo: la persona. Sono le persone, infatti, che portano a buon fine i progetti. A seguire le regole del management, prima sono definiti i ruoli e poi si scelgono le persone. Ma la saggezza del manager sa che si deve ricercare un equilibrio tra le persone, perché la componente umana è il primo fattore atto a determinare il successo o a decretare l’insuccesso di un progetto.

La giustizia riparativa per la risoluzione dei conflitti

Essendo persone, viviamo necessariamente di reazioni umane, anche faticose, difficili, con esiti incomprensibili per il destinatario della comunicazione, talvolta tali da trasmodare in conflitti o dissidi. Quando questo accade, chiudere ogni comunicazione lascia irrisolto il problema alla radice del conflitto e anche chiedere scusa può non bastare. Per la gestione, ma anche per la prevenzione delle dinamiche conflittuali nell’ambiente di lavoro, l’Umanesimo manageriale si avvale delle indicazioni di metodo della Giustizia riparativa.

La Giustizia riparativa nasce come modalità alternativa della gestione dei conflitti originati da un reato o espressi attraverso un reato. La crisi senza precedenti del sistema penale, la delusione per gli esiti della pena detentiva, la nuova centralità della vittima, sancita anche da recenti direttive europee, il recupero di tradizioni antropologiche di gestione comunitaria e conciliativa dei conflitti hanno portato alla nascita di un paradigma di giustizia – quella riparativa appunto – che ha rapidamente travato diffusione a livello globale.

Giustizia riparativa vuol dire cercare comunitariamente risposte ai conflitti che non costituiscano un raddoppio del male, che non comportino esclusione, lasciando inespressi sentimenti ed emozioni e inalterato il livello di conflittualità. Giustizia riparativa vuol dire attenzione all’altro, al suo essere persona, focalizzazione su ciò che unisce a partire da ciò che ha diviso, riconoscimento di interessi comuni, di possibilità di soddisfacimento dei bisogni di ascolto, di riconoscimento e di riparazione, sia essa simbolica o materiale.

La flessibilità degli strumenti operativi della giustizia riparativa (la mediazione, la riparazione, le scuse formali, i gruppi di ascolto, i restorative circles) ha fatto sì che il ricorso alla giustizia riparativa abbia oltrepassato i confini del diritto penale. La giustizia riparativa è diventata un paradigma generale, uno stile gestionale, una modalità di intervento reattiva (o di conflict resolution) e proattiva (o di problem solving) utilizzabile ad ampio spettro. In ambito scolastico, per esempio, si ricorre a strumenti e metodi della giustizia riparativa per affrontare il problema del bullismo e, nei paesi più all’avanguardia nella organizzazione della istruzione di base e avanzata, la giustizia riparativa è modalità comportamentale che si apprende già nelle scuole elementari.

In ambito universitario, la Giustizia riparativa è utilizzata quale modello di gestione dei conflitti a livelli diversi (tra studenti, tra studenti e docenti, nell’ambito del personale amministrativo, tra docenti e personale) in molti campus nordamericani. Libri importanti sono stati scritti per costruire attraverso la giustizia riparativa una campus community, con benefici considerevoli in termini non solo di armonia e di coesione, ma anche di rendimento degli studenti e di produttività ed efficienza d’insieme.

La chiave di volta è il restorative circle: un incontro dialogico guidato da un facilitatore (circle keeper), che ricorda e fa mantenere le regole minime di rispetto interpersonale e garbo comunicativo. Ci si siede, dunque, in circolo – attivando una modalità dialogica autenticamente democratica, in cui sono abolite frontalità e gerarchie e – passando di mano in mano il c.d. talking piece, un oggetto simbolico che finché tenuto in mano dà diritto di essere ascoltati e di non essere interrotti – ciascuno può parlare, o anche semplicemente tacere, perché anche il silenzio può essere espressivo. Il focus è sul conflitto, ma le domande per affrontarlo sono diverse da quelle classiche. Non più semplicemente: chi è stato? Di chi è la colpa? A partire dalla ricerca di interessi convergenti ci si chiede invece: cosa è successo? Chi ne è rimasto danneggiato? Cosa si può fare per riparare? Cosa si può fare insieme per prevenire conflitti futuri?

Al centro della Giustizia riparativa non ci sono la colpa e la riprovazione, bensì la sofferenza prodotta, la cura e la riparazione. Dialogo, riconoscimento dell’altro, responsabilità attiva per riparare e ri-costruire. Infatti, talora dimenticanze, omissioni, errori o scorciatoie – che possono configurarsi come illecito amministrativo – sono in realtà espressione/sintomo di uno stato psico-fisico di stanchezza o di fatica (dimensione strettamente personale) necessitanti di aiuto o di supporto. La metafora della cordata in montagna, dove ognuno dà e riceve, può descrivere meglio l’attenzione alla persona. Questo è fare giustizia riparativa.

Il team di progetto

L’Umanesimo manageriale ha un team di persone che lo hanno progettato, lo hanno condiviso e lo seguiranno per tutto il 2015, affiancandosi al Centro studi sulla Giustizia riparativa e la Mediazione (CeSGReM) dell’Università degli Studi dell’Insubria:

  • Alfredo Biffi, Professore associato di teoria dell’organizzazione
  • Giovanni Angelo Lodigiani, Docente di Giustizia riparativa e mediazione penale
  • Grazia Mannozzi, Professore ordinario di diritto penale – Coordinatrice
  • Gianni Penzo Doria, Direttore Generale – Coordinatore
  • Simone Vender, Professore ordinario di psichiatria

Il primo semestre del 2015 sarà scandito da un primo appuntamento in cui sarà illustrata la poetica di Eugenio Montale (a dicembre venne preferito a Giovanni Pascoli in una votazione informale). Ai primi di marzo Mariateresa Balsemin, Manager didattico per la qualità del Dipartimento di scienze teoriche e applicate, si esibirà con tecnica ed eleganza come soprano in arie barocche. In aprile, Catia Imperatori e Roberta Meroni, rispettivamente funzionario dell’Ufficio Sistemi informativi direzionali e funzionario della Segreteria del Rettore e del Pro Rettore vicario, illustreranno i segreti della loro cucina raffinata, fatta anche di dessert creati su misura per le occasioni e/o per il protagonista dell’evento, insomma di dolci personalizzati. A maggio sarà la volta di un musicista esperto, Luca Gallo, Capo ufficio relazioni internazionali che parlerà ai colleghi della sua passione per le lame giapponesi, con tanto di piccola mostra per l’occasione. L’ultimo incontro del semestre vedrà protagonista Isabella Bechini, Capo ufficio segreterie studenti, con una conferenza su La donna nel Medioevo: uno spaccato della vita di qualche secolo fa con molti riflessi sul mondo contemporaneo. Con la seconda metà del 2015 inizierà anche un percorso visivo-percettivo: Giovanni Barbieri, Capo ufficio contabilità, illustrerà infatti la passione per la fotografia d’autore, dai viaggi allo sport (F1, soprattutto).

I manager dell’Ateneo – circa una quarantina tra dirigenti, capi servizio, capi ufficio, manager didattici per la qualità, segretari amministrativi e funzionari con incarico specifico – hanno aderito con entusiasmo e inizieranno un percorso insieme per applicare nella concretezza del lavoro quotidiano per tutto il 2015 la Giustizia riparativa e l’Umanesimo manageriale.

 

* Grazia Mannozzi è Professore ordinario di Diritto penale, mentre Gianni Penzo Doria, nostro collaboratore da tempo, è Direttore Generale. Entrambi lavorano e applicano l’Umanesimo manageriale all’Università degli Studi dell’Insubria www.uninsubria.it/umanesimo

 

 


[1] L’apologo ci è stato raccontato dal prof. Saverio Regasto dell’Università degli Studi di Brescia nel corso del progetto di formazione-intervento UniDOC il 22 ottobre 2014.

 

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!