Se abitare diviene un processo collaborativo

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Da qualche anno la questione della casa si è spostata da diritto all’abitazione a preoccupante emergenza, sia per la generale riduzione della capacità d’acquisto o di accesso al bene, sia per l’accelerazione che gli stili di vita imprimono ai consumi delle città. Per riportarla al centro delle politiche del welfare bisogna offrire delle soluzioni abilitanti, un tema ricorrente nella sharing economy: farlo attraverso l’housing è un orizzonte in espansione. Ne abbiamo parlato con Liat Rogel di HousingLab.

21 Luglio 2014

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Diego Segatto

Da qualche anno la questione della casa si è spostata da diritto all’abitazione a preoccupante emergenza, sia per la generale riduzione della capacità d’acquisto o di accesso al bene, sia per l’accelerazione che gli stili di vita imprimono ai consumi delle città. Per riportarla al centro delle politiche del welfare bisogna offrire delle soluzioni abilitanti, un tema ricorrente nella sharing economy: farlo attraverso l’housing è un orizzonte in espansione. Ne abbiamo parlato con Liat Rogel di HousingLab.

Avere un “tetto sulla testa” è un diritto considerato scontato in Italia, ma anche su questo versante l’innovazione si sta facendo strada, introducendo concezioni e strumenti con un forte accento di innovazione sociale. Uno di questi è il co-housing.

Di segnali ed esperienze ce ne sono tanti, ma il punto da cui partire è la “creazione di cultura” come ci ha spiegato Liat Rogel di HousingLab, un’associazione che ha come scopo la diffusione delle buone pratiche, la condivisione delle competenze e la sperimentazione partecipativa nell’ambito dell’abitare sociale e collaborativo, fondata da Rogel assieme a Rossella Bearzatto e Marta Corubolo. “Il cuore della questione è quello di far crescere e sviluppare una domanda – Spiega Rogel – ma questo non è possibile se la gente non conosce le alternative alla concezione tradizionale. Dall’altra parte, infatti, i costruttori sostengono che il mercato non richiede soluzioni focalizzate sull’abitare collettivo”.
Per questo la diffusione di buone pratiche, gli incontri sul tema, le visite guidate in luoghi di co-housing, e le fiere di settore come Experimentdays sono fondamentali, perché vanno esattamente nella direzione di aprire un orizzonte di possibilità “Non c’è niente di meglio – continua Rogel – che parlare con le persone che già vivono le situazioni. Poi per passare dall’informazione alla pratica dell’abitare collaborativo ci si può appoggiare ad associazioni come la nostra che offrono consulenza e coaching, passo per passo”.

Esperienze concrete di co-housing

Ma quali sono queste visioni alternative dell’abitare, o meglio “dell’abitare comune”? Rogel parte immediatamente con due esempi: “Negli ultimi anni abbiamo affiancato un gruppo di persone con il desiderio di vivere in co-housing compiendo un’operazione dal basso cioè partendo dalla costruzione del gruppo e arrivando solo successivamente ad individuare la casa giusta. Esattamente il contrario di ciò che avviene normalmente. È stato un percorso molto lungo e che dopo anni ha portato all’individuazione di un terreno a Milano, sul Parco Lambro. A breve inizierà la fase più attiva di progettazione in cui cercheremo di capire meglio con loro cosa significa progettare in gruppo e condividere gli spazi. Un altro caso a Milano è nel quartiere Affori in via Scarsellini, che mi riguarda personalmente visto che è il posto dove sono andata ad abitare. Lì l’esperienza partì da una piattaforma digitale. Un anno prima di trasferirci in un immobile che era ancora in costruzione in cooperativa con CCL (Consorzio Cooperative Lavoratori), abbiamo aperto una piccola comunità on line, un social network di condominio che ha avuto un grande successo contribuendo a creare un senso di comunità forte prima ancora di venire ad abitarvi. In un palazzo con 100 famiglie conoscerne già 30 fa già una grande differenza”.

Al di là delle parole, però quel che conta sono i fatti. E’ possibile in una città come Milano pensare di condividere spazi e beni con estranei e in modo armonico per il solo scopo di creare valore sociale condiviso? Rogel non ha dubbi, la risposta è sì. “Noi condividiamo due sale condominiali (in una delle quali mi trovo proprio ora…) che sono aperte al gioco libero dei bambini e nelle quali organizziamo corsi di ginnastica, aperitivi e cene; un gruppo d’acquisto; una biblioteca; una connessione internet condominiale. Le persone interessate a questo progetto all’inizio hanno aderito per il risparmio, per l’impronta ecologica, per lo spirito della cooperativa (si consiglia la lettura di questo articolo, nds) e non tanto per ampliare le proprie relazioni sociali o condividere gli spazi. Invece siamo riusciti a costruire relazioni interpersonali forti e ad influenzare la nostra vita anche nelle funzionalità del quotidiano, permettendo un risparmio economico notevole. Il valore aggiunto del percorso che abbiamo fatto assieme sta quindi nell’essere andati oltre le aspettative, con ampia soddisfazione generale. La base di cooperazione fornita da CCL era già solida di per sé ma, ripeto, trovare questi principi in una comunità di 100 famiglie è un’esperienza molto forte. E qui torniamo al tema dell’importanza di visitare i luoghi delle esperienze, quando qualcuno passa di qui rimane stupito, in particolare dal rapporto di fiducia che si è instaurato tra i condomini. Premetto che serve tempo per raggiungere questo stadio, non tutte le culture sono predisposte all’autogestione di gruppo, come in Germania per esempio”.

Milano in fermento

Quelli descritti da Liat Rogel non sono gli unici casi di questo genere a Milano, che anzi, sembra stare attraversando un momento di particolare fermento. Il progetto Cenni, della Fondazione Housing Sociale, ad esempio, rappresenta un’eccellenza nella collaborazione tra pubblico e privato per abitazioni della cosiddetta “fascia grigia[1]”, con ampi spazi comuni e locali per attività poliedriche, così come abitazioni per studenti che in cambio di affitti agevolati prestano tempo di volontariato. Poi c’è il progetto Zoia del Consorzio Cooperative Lavoratori, che oltre ad ospitare abitazioni sociali offre spazi ad attività commerciali che interessano specificatamente la comunità assegnate con un bando a piccoli artigiani. Su altri fronti c’è il condominio solidale di Bruzzano, comunità di famiglie che accoglie anche persone affette da disagio psichico, convivendo spazi e momenti comuni. È un’esperienza che colpisce non solo per la composizione sociale, ma anche perché nasce dal recupero di uffici mai utilizzati e in stato d’abbandono. Ancora c’è l’Urban Village a Bovisa, un caso ancora diverso che coinvolge trenta famiglie. Tutte esperienze differenti che permettono di cogliere l’esistenza di una ricerca continua sul tema dell’abitare.

E come Milano anche altre realtà si stanno muovendo. Nell’arco di poco tempo due concorsi nazionali hanno premiato l’housing sociale. Il primo il bando Che Fare 2, in ambito culturale, che ha premiato un progetto di alcuni soggetti torinesi che hanno interpretato l’abitare come processo di coesione sociale. Il secondo concorso è Make a Change il cui vincitore, Beat Area, ha proposto un progetto legato all’housing a Mantova.

“Quando un Comune capisce che inserire in programma residenze più sociali può portare alla riqualificazione del quartiere o della via nel quale sono inserite – spiega Rogel – vuol dire che qualcosa sta cambiando, e mi sembra che qui a Milano si vada proprio in questa direzione. Ci troviamo oggi con una Giunta Comunale che è in ascolto continuo, e questo è già un pilastro fondamentale. Esperienze che prima faticavano a legittimarsi, ora trovano attenzione da parte della Pubblica Amministrazione. Al di là di difficoltà specifiche che possono nascere avverto disponibilità al dialogo per capire quali sono le esigenze e in che modo il Comune può venire incontro alle istanze. Poi i tempi non sono rapidi, vista l’articolazione del tema. Va ricordato che ci stiamo muovendo in un settore ancora molto tradizionale, popolato da complesse normative che rischiano di inibire iniziative totalmente nuove: ad esempio non esiste una legge che definisca cos’è una sala condominiale, quindi a cosa mi riferisco se ne devo aprire una? Non è né un’abitazione né un elemento costruttivo codificato (come una scala, un ascensore…). E questo sarà uno degli argomenti su cui ci confronteremo prossimamente con Experimentdays.
Poi nei prossimi giorni saremo in Municipio con un gruppo di signore che desiderano realizzare un progetto di co-housing immaginato al femminile per il quale ci confronteremo con un referente del Comune: nella relazione tra PA e cittadini o professionisti è fondamentale avere degli interlocutori precisi”.

Il grande assente: il privato

Nel discorso di Rogel l’elemento che sembra essere citato con meno frequenza è il privato. “Questo perché – spiega – costruttori e agenzie non riescono ancora ad individuare una domanda tale da giustificare un’offerta specifica. Ma come dicevo, più si cominceranno a diffondere informazioni sulle esperienze realizzate più crescerà la probabilità che anche da parte dei privati nascano soluzioni intelligenti e innovative”. Non le la prima volta che trasformazioni sociali modificano il mercato immobiliare. Oggi, ad esempio, la composizione dei nuclei famigliari, la crisi economica, la diffusione delle tecnologie che abilitano il lavoro da casa, la crescita dei single e contemporaneamente degli ultra trentenni che vivono ancora con i genitori determinano profonde modificazioni nelle esigenze di utilizzo dell’abitazione. Gli spazi tradizionalmente progettati per la famiglia non sempre collimano che queste nuove esigenze. Rogel ha una idea di questa nuove esigenze abbastanza chiara: “Prendiamo ad esempio i single o una coppia di anziani. A questa tipologia di utenti non serve una casa molto grande, ma all’occorrenza possono servire spazi aggiuntivi per ospitare la famiglia, o organizzare pranzi e cene da venti persone durante le feste. Attualmente le case non offrono questo tipo di adattabilità, siamo fermi alla progettazione per la famiglia composta da mamma, papà e due bambini. La soluzione che offre lo spazio in condivisione risponde esattamente a questa esigenza, oltre poi a spingersi oltre, in direzione dei servizi in condivisione come l’automobile di condominio, la sala attrezzi o la lavanderia gestiti in comunità. Questa innovazione che oggi fatica a viaggiare spinta solo dai singoli, dovrà venire dai professionisti e dal settore commerciale. A tal proposito e forse non a caso, proprio l’ANCE Milano ha diffuso i dati di uno studio condotto di recente sulla domanda immobiliare, con riferimento specifico all’evoluzione dell’housing.

HousingLab e Experimentdays

Due membri di HousingLab sono attualmente coinvolti nel Master di Housing Sociale e Collaborativo del POLI.design, alla sua terza edizione e nato proprio dall’idea che per gestire processi più complessi, tra il sociale, l’architettura, l’economia sono necessarie nuove figure professionali in una visione più ampia di intervento.

A Milano l’11 e il 12 ottobre Housinglab organizzerà Experimentdays – Fiera dell’abitare collaborativo. L’idea della manifestazione milanese è la stessa dell’edizione tedesca, nata a Berlino una decina di anni fa per iniziativa di un gruppo di pianificatori urbani (ID22 – Istituto per la Sostenibilità Creativa): creare un mercato delle soluzioni abitative non tradizionali, mettendo assieme gli attori in grado di mobilitarlo. L’idea si è sviluppata e diffusa in altre città tedesche fino ad arrivare anche a Vienna due anni fa. L’innovatività di questa manifestazione milanese, prima nel suo genere, sta nel fatto che, se a Berlino la maggior parte degli espositori sono architetti (in virtù delle dinamiche berlinesi di riqualificazione degli edifici abbandonati) alla ricerca delle figure complementari, la formula nostrana apporta molti adattamenti più pertinenti alla situazione italiana: sarà presente il mondo cooperativo con FederAbitazione, il main partner; ci saranno offerte concrete di vario tipo (il programma e gli espositori su www.experimentdays-milano.it ); ma soprattutto verrà data visibilità ai servizi che si adattano anche alle situazioni preesistenti in modo da renderle più collaborative: la lavanderia condominiale, il gruppo d’acquisto via internet, ma anche le piattaforme che curano la relazione tra le persone, lo scambio, la banca del tempo e i tanti servizi della sharing economy che hanno a che fare con la casa. Una categoria che a Berlino non c’è.


[1] E’ la fascia di persone economicamente abbastanza stabile ed autonoma, ma che non è in grado di avere un casa di proprietà ed in cui l’affitto rappresenta una spesa sostanziosa rispetto alle entrate mensili.

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