PA, niente paura: fatevi pagare in bitcoin

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Una PA che innova senza avere paura può utilizzare i bitcoin per essere digitale, univoca e indipendente dai suoi fornitori. Può generare documenti come se fossero cartacei, memorizzandoli nell’empireo delle reti decentralizzate e indipendenti, verificando in qualsiasi momento che uno per uno i suoi destinatari abbiano letto e compreso.

12 Gennaio 2016

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Stefano Pepe, membro Assobit

Da anni si parla di trasparenza, semplificazione, digitalizzazione della Pubblica Amministrazione. In questo ambito si sta cercando di far crescere l’adozione dei pagamenti elettronici nella PA, grazie all’infinitamente migliore tracciabilità e velocità rispetto al contante.

Eppure questo processo sembra essere fermo, forse perché nessuno vuole pagare i costi della transazione elettronica (sebbene come avviene nel privato sarebbero ampiamente ripagati da una maggiore semplicità di gestione) o forse perché l’adeguamento di tutti i processi amministrativi, che ha partorito incredibili bizantinismi digitali, spaventa anche il più coraggioso degli innovatori.

Immaginiamo, solo per qualche minuto, che la nostra PA fosse davvero in grado di rinnovarsi e guardare al futuro, adottando un approccio sistemico, non semplicemente “evolutivo” o “riparatore”, che si liberi dalle catene di un’era (preistorica) analogica, cartacea, lenta, inefficiente.

Immaginiamo che la nostra PA si trovasse di fronte all’opportunità di avere la stessa velocità del digitale, pertanto la rapidità di creazione e trasmissione oggi possibili soltanto grazie all’informatica, unita a qualcosa che sia “raro”, quasi scomodo e non replicabile come l’analogico: il documento cartaceo, l’archivio polveroso, il protocollato a penna. Qualcosa che all’occorrenza equivale a carta bollata ma è puramente informatizzata.

Dopo decenni di silenziosa evoluzione, Internet ci ha dato un frutto maturato dalla distorsione del digitale, quella cosa che ha quasi ucciso l’industria discografica, che ha messo in ginocchio tutto quanto si basa sui diritti d’autore: con l’informatica è possibile replicare qualsiasi documento, qualsiasi immagine o video, qualsiasi credenziale o identità. Basta un copia/incolla per duplicare, in forma indistinguibile dall’originale, un qualsiasi tipo di documento digitalizzato.

L’arrivo del Bitcoin, l’antitesi di questa distorsione, ci ha messo a disposizione per la prima volta su così larga scala un protocollo che introduce rarità e unicità su qualcosa di digitale. Per farlo ha deciso di percorrere la strada più impervia, quella del denaro, il quale richiede enorme fiducia per essere utilizzato e condiviso.

Il Bitcoin non è uno strumento nato per droga e riciclaggio, queste sono storie ad effetto che ci raccontavano anche quando era arrivato Internet vent’anni fa. Il Bitcoin è uno strumento che ripudia la centralizzazione dell’informatica, rinnega l’esistenza di un punto di comando che ne determina le modalità di utilizzo e transazione. Il Bitcoin abbandona un’impostazione verticistica, affidando il controllo dei flussi di denaro a funzioni matematiche irrefutabili, non manomettibili, predeterminate all’origine e assolute come le rigide regole dell’informatica distribuita. [per saperne di più sui Bitcoin]

Oggi una Pubblica Amministrazione che può innovare senza avere paura, può utilizzare questo strumento per essere digitale e univoca al tempo stesso, ubiqua (grazie ad Internet), ma indipendente dai suoi fornitori. Può generare documenti come se fossero cartacei, memorizzandoli nell’empireo delle reti decentralizzate e indipendenti, verificando in qualsiasi momento che uno per uno i suoi destinatari abbiano letto, compreso, eseguito quanto richiedono il protocollo o il decreto.

Può modellare sulle sue necessità burocratiche l’assoluta trasparenza di quello che accade nella blockchain, il grande libro mastro del Bitcoin, mettendo nero su bianco quali transazioni sono state fatte, per quale motivo, a beneficio di chi e con quali tempistiche.

Oggi una Pubblica Amministrazione di questo tipo avrebbe in mano un Bitcoin come denaro programmabile, un software che da solo verifica l’esistenza di requisiti, genera i documenti necessari, li scrive autentici e univoci sulla blockchain e li eroga soltanto a chi (in bitcoin) paga soltanto quanto strettamente dovuto.

Sarebbe una PA che automaticamente diventerebbe trasparente, rapida, efficiente. Semplice e ubiqua, bella come un ecommerce, robusta come una criptovaluta, tascabile come un’app dello smart phone.

Peccato, il tempo è scaduto: dobbiamo tornare alla PA del protocollato cartaceo, al fax, alla PEC. Lì fuori banche e aziende stanno già adottando il Bitcoin, proclamando a gran voce che il purgatorio del digitale 1.0, quello del copia e incolla, è finito. Come si legge sui libri di storia. Roma non si è fatta in un giorno, ma nel frattempo è diventata schiava della sua stesa burocrazia. Adottare il Bitcoin avrebbe potuto salvarla, perché si sarebbe messa a frutto la sua burocrazia matematica, deterministica, invisibile, automatica, agile e condivisa. Il coraggio questa volta è anche a buon prezzo: il protocollo Bitcoin è open source e gratuito.

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