Per una amministrazione nativa digitale: come fare…a fare presto

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Anche per la costruzione della “PA tutta-digitale”, tanto evocata quanto sinora inutilmente attesa, la necessità di fare presto non può mettere in secondo piano l’obbligo a fare bene. In questo illuminante articolo, pubblicato nella rassegna ASTRID, Giulio De Petra per "far presto e bene" rivolta il tavolo e propone un nuovo paradigma: provare a costruire una PA "nativa digitale" senza limitarci ad informatizzare l’esistente, neanche quando questo ci sembra immutabile legge di natura. Ce la possiamo fare? No se ci limitiamo a velocizzare gli adempimenti, a digitalizzare gli stessi fascicoli, a continuare ad affastellare norme; sì se usiamo un pensiero divergente, se usiamo meno diligenza e più immaginazione, se diamo spazio ai giovani di mente, ma anche ai giovani d’età, perché spesso, anche se non sempre, le due cose coincidono. Mi piacerebbe che su questa suggestione si aprisse non un dibattito, ma un gruppo di pensiero,  perché se l’immaginazione è spesso individuale, far sì che questa porti frutti qui e ora è sempre un lavoro collettivo.

Carlo Mochi Sismondi

26 Marzo 2014

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Giulio De Petra*

Anche per la costruzione della “PA tutta-digitale”, tanto evocata quanto sinora inutilmente attesa, la necessità di fare presto non può mettere in secondo piano l’obbligo a fare bene. In questo illuminante articolo, pubblicato nella rassegna ASTRID, Giulio De Petra per "far presto e bene" rivolta il tavolo e propone un nuovo paradigma: provare a costruire una PA "nativa digitale" senza limitarci ad informatizzare l’esistente, neanche quando questo ci sembra immutabile legge di natura. Ce la possiamo fare? No se ci limitiamo a velocizzare gli adempimenti, a digitalizzare gli stessi fascicoli, a continuare ad affastellare norme; sì se usiamo un pensiero divergente, se usiamo meno diligenza e più immaginazione, se diamo spazio ai giovani di mente, ma anche ai giovani d’età, perché spesso, anche se non sempre, le due cose coincidono. Mi piacerebbe che su questa suggestione si aprisse non un dibattito, ma un gruppo di pensiero,  perché se l’immaginazione è spesso individuale, far sì che questa porti frutti qui e ora è sempre un lavoro collettivo.

Carlo Mochi Sismondi

 “Un intenso utilizzo delle tecnologie digitali è la condizione abilitante per un radicale rinnovamento delle pubbliche amministrazioni”. Mai affermazione è stata più ripetuta da politici e da amministratori pubblici. Mai aspettativa è stata più costantemente delusa nel corso degli ultimi anni.

Affollata e deprimente è la casistica dei progetti annunciati e non avviati, per proseguire con quelli avviati e mai realizzati e finire con quelli realizzati, ma di fatto inutilizzati. Eppure le tecnologie necessarie sono più che disponibili. L’innovazione della pubblica amministrazione non richiede tecnologie sofisticate. Quelle, già mature, che hanno consentito l’innovazione in altri importanti settori di servizi, come ad esempio quello bancario, sono più che sufficienti. Non solo, proprio negli ultimi anni le tecnologie che si sono sviluppate intorno a Internet e nell’universo del software aperto e libero hanno reso disponibili una nuova generazione di strumenti flessibili, facilmente utilizzabili ed a costi contenuti.

Dunque le tecnologie ci sono, sono adeguate e costano anche poco. Ma anche le competenze sono disponibili. All’interno delle amministrazioni pubbliche dove, malgrado il blocco del turnover e il complessivo invecchiamento degli addetti, vi è tuttavia la presenza di esperti di qualità, capaci di progettare, di realizzare e di gestire il nuovo. Ma anche all’esterno, dove centri di ricerca e dipartimenti universitari hanno dedicato al tema dell’innovazione nella pubblica amministrazione energie e risorse significative. O nel mondo delle imprese, non tanto in quelle più grandi, purtroppo imbrigliate in modelli di affari e di relazione non più sostenibili, ma in una nuova leva di piccole e medie imprese ict nate nel paradigma produttivo di internet.

La stessa composizione della cabina di regia coordinata nell’ultimo anno da Francesco Caio dimostra la disponibilità di competenze di eccellenza fortemente motivate a dare il loro contributo. E sono state anche molte le risorse economiche destinate nel corso degli anni all’innovazione della pubblica amministrazione, e disperse inutilmente in centinaia di progetti spesso con pochi risultati.

Ma se le tecnologie erano disponibili, le competenze adeguate e le risorse non sono mancate, perché i risultati, in termini di effettivo miglioramento e di abbattimento dei costi dei servizi sono stati così deludenti?
Quale malvagio sortilegio impedisce alla pubblica amministrazione di cambiare pelle, così come è avvenuto in altri importanti settori di servizi? E come fare a fare, cioè a trasformare tecnologie, competenze e risorse in innovazione reale per chi usa l’amministrazione pubblica. E come fare a farlo presto, non per rendere omaggio alla più recente retorica della velocità, ma perché se non si fa presto la malattia dell’inconcludenza pubblica diventa cronica e incurabile.

Negli ultimi tempi si è fatta sempre più strada l’opinione che il vero ostacolo stesse non nell’individuare cosa fare, ma nell’essere capaci di governare il processo che porta a conseguire il risultato. Non nel cosa fare, ma nel come farlo. Non nell’agenda, già fin troppo affollata di obiettivi e progetti, ma nella governance.
La diagnosi è giusta. Il problema esiste davvero. Ma per trovare la soluzione bisogna approfondire il tema della governance e la sua complessità. Questo termine indica una pluralità di ambiti e di cause che generano l’incagliamento dei processi di innovazione.

C’è la governance che riguarda l’intersecarsi delle competenze di più ministeri sullo stesso ambito di innovazione: storiche sono ad esempio le sovrapposizioni sul tema della anagrafe tra ministero dell’economia e ministero degli interni.
C’è la governance che riguarda la sovrapposizione tra amministrazioni centrali, regioni e comuni, con ognuno dei soggetti che, invece di fare ciò che gli compete, cerca di fare quello che dovrebbero fare gli altri, generando la fin troppo citata proliferazione delle soluzioni sul territorio.

C’è infine la governance che riguarda la complessa relazione tra tecnologia giuridica e tecnologia digitale, che ha generato un corpo normativo (il codice dell’amministrazione digitale) che è diventato in molti casi di fatto un ostacolo allo sviluppo dell’innovazione, proprio per la sua incapacità di tenere dietro al rapido mutamento delle opportunità tecnologiche.

La soluzione al complesso problema della governance è stata reclamare a gran voce l’investitura di un referente politico unico, un ministro, o almeno un sottosegretario, o anche solo un commissario, come è stato Francesco Caio. Si tratta sicuramente di una richiesta fondata e di una condizione necessaria ad affrontare il problema della governance. Condizione necessaria, ma non assolutamente sufficiente, e quindi illusoria. Anzi, tale da correre il rischio di un ulteriore livello di governo che si sovrappone agli altri esistenti. E di lasciare il soggetto investito di tale responsabilità senza la possibilità di agire operativamente sulla filiera della realizzazione e dell’effettivo utilizzo. Accanto alla “responsabilità unica” va gestita diversamente la pluralità dei soggetti concertanti, che oggi produce, nella migliore delle ipotesi, una pluralità ingestibile di “tavoli di concertazione”, per ambito tematico o territoriale.

E occorre intervenire sull’insieme delle numerose agenzie pubbliche che operano nella campo della innovazione dell’amministrazione. La costituzione di Agid da parte del governo Monti è stata positiva ed ha iniziato a correggere la proliferazione clientelare di strutture promossa dai governi precedenti. Ma occorre proseguire considerando nel loro insieme Agid, Consip, Sogei e anche il Formez, la più grande in termini di addetti e di risorse gestite. La loro attività va riorganizzata sia valorizzando la specializzazione di ognuna, sia mettendo a fattor comune le reti di relazione territoriali, per migliorare la capacità di indirizzo e di sostegno a livello locale.
Ma il contributo più significativo al tema della governance, e quindi all’efficienza e alla velocizzazione dei processi di innovazione sta nel prendere atto di ciò che, malgrado tutto, sta accadendo in termini di innovazione in alcuni luoghi dell’amministrazione pubblica, al centro o nei territori, non come pratiche di eccellenza isolate, ma come reti professionali di innovazione tematica.

Sono proprio le reti professionali che possono fare la differenza in termini di governance dei processi di innovazione.
Queste reti professionali esistono, hanno nomi e cognomi, cooperano come si coopera sulla rete, hanno valori professionali condivisi, promuovono con efficacia il loro aggiornamento professionale mediante lo scambio reciproco di competenze tecniche e professionali. Un esempio fra tutti, il più recente, è quello che sta accadendo per la realizzazione del fascicolo sanitario elettronico tra gli esperti delle diverse regioni e di Invitalia. Queste reti professionali vanno fatte crescere, valorizzate, utilizzate come il motore possibile dei processi di attuazione.
Ma tutto quello che abbiamo detto rischia di non essere sufficiente. Armati delle migliori tecnologie e competenze e animati delle migliori intenzioni riguardo alla governance rischiamo di andare a sbattere contro l’ostacolo più difficile da superare, cioè di realizzare sistemi digitali che producono cambiamento effettivo nella capacità di servizio dell’amministrazione pubblica, che è poi la misura ultima della utilità di tutto il processo.

L’ostacolo più difficile sta nella difficoltà a cambiare le abitudini organizzative, i procedimenti, i modi con cui l’organizzazione pubblica ha imparato a fare il suo mestiere. E’ qualcosa di più profondo e resistente di ciò che generalmente chiamiamo resistenza al cambiamento, è l’inerzia fisiologica di una organizzazione complessa le cui regole di funzionamento si sono formate, strutturate e consolidate in un mondo in cui le tecnologie che oggi usiamo correntemente non esistevano.

Anche per concepire l’ultima versione del codice dell’amministrazione non si è trovato di meglio che continuare a “simulare” nel nuovo contesto digitale l’utilizzo dei documenti cartacei, cioè, a tutti gli effetti, a imprigionare le nuove tecnologie nei vincoli e nelle pratiche d’uso della più antica delle tecnologie organizzative: il documento cartaceo con le sue firme ed i suoi bolli, ed i problemi della sua duplicazione, trasmissione e conservazione. E il senso comune di una organizzazione è la cosa più difficile da modificare, perché appare agli occhi di tutti gli attori organizzativi, anche di quelli animati dalle più sincere intenzioni di cambiamento e di innovazione, una specie di legge di natura.

Occorre quindi un cambio di paradigma radicale e immediato.
Ognuno di noi attualmente, e chi è nato con Internet ancora di più, vive in un contesto d’uso del digitale che struttura in modo radicalmente nuovo il lavoro, le relazioni sociali, le routine cognitive, i comportamenti. Perché la pubblica amministrazione deve essere un contesto in cui tutto questo non vale? O meglio, girando la domanda in positivo: come deve essere fatta una amministrazione pubblica che nasca oggi, per “questi” cittadini sempre più nativi digitali, non per adattare le nuove opportunità alle vecchie procedure, ma per inventare nuove procedure direttamente nel contesto delle nuove opportunità? In altri termini, come sarebbe fatta una amministrazione che nascesse oggi, come fosse essa stessa “nativa digitale”.

Certo, resta la grande fatica di cambiare ciò che già esiste. Ma si riuscirebbe finalmente a farlo con gli occhi rivolti in avanti, a quello che si può già fare, non rivolti costantemente all’indietro, a quello che si è sempre fatto.

Ecco, se gli esperti di amministrazione e gli esperti di tecnologie digitali lavorando insieme riuscissero a fare questo, magari iniziando col riscrivere rapidamente il codice della amministrazione digitale con pochi, radicali ed essenziali principi, forse riusciremmo non solo a fare, ma anche a fare presto.

 

 * Giulio De Petra – Intervento al Convegno “Le politiche per l’Italia digitale” che si è svolto alla Camera il 14 marzo 2014 promosso dai gruppi parlamentari del Partito Democratico e di Sinistra Ecologia e Libertà.

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