Appalti pre-commerciali, sulle definizioni l’Italia diverge dall’Europa

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I servizi di ricerca e sviluppo tecnologico vengono distinti dall’ANAC dai servizi di ricerca e sviluppo tout court. Si deve logicamente inferire che un servizio di ricerca e sviluppo “non tecnologico” non abbia titolo per essere acquisito all’interno di un contratto di appalto pre-commerciale. Questa conclusione per quanto logica appare inaccettabile per una serie di motivazioni

21 Aprile 2016

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Francesco Molinari, Politecnico di Milano

In questi giorni si sta salutando con una certa enfasi l’entrata in vigore del nuovo Codice dei Contratti, che recepisce la riforma europea del 2014, avvenuta con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del 19 aprile. In attesa che la riflessione su questo argomento si strutturi per aree tematiche, vorremmo fare un passo indietro e commentare un atto pubblicato solo un mese fa, il Comunicato del Presidente dell’ANAC del 9 marzo 2016, che fornisce alle stazioni appaltanti indicazioni di carattere generale circa l’ambito oggettivo di applicazione e la disciplina di riferimento degli appalti pubblici pre-commerciali (all’inglese PCP, Pre Commercial Procurement), depositato presso la Segreteria del Consiglio in data 14 marzo 2016.

In sole tre pagine, il Comunicato riassume e racchiude quasi tutti i riferimenti giuridici e di soft law – essendo la materia, vogliamo ricordarlo, sottratta all’ambito di applicazione del vecchio come del nuovo Codice – necessari per una stazione appaltante italiana che voglia cimentarsi nella costruzione di un intervento di tale natura. Così facendo, utilmente consolida e definisce in modo abbastanza chiaro e quasi completo (con le poche eccezioni che andremo a presentare nel seguito) il perimetro entro il quale la libera iniziativa delle amministrazioni aggiudicatrici può ricorrere a tale strumento, “direttamente applicabile senza alcun intervento normativo”, evitando i rischi sanzionatori di una distorta quanto illegittima applicazione.

Per economia di spazio, divideremo questo commento in tre parti, soffermandoci ora sull’oggetto e nelle prossime due uscite su un’analisi di fattibilità ed alcune indicazioni di procedura.

Per quanto riguarda l’oggetto del PCP, la parte forse più debole del Comunicato è proprio il suo incipit, laddove si cimenta nel lodevole quanto inutile, ad avviso di chi scrive, sforzo di definire in cosa consistano i servizi di ricerca e sviluppo, senza attingeread alcuna fonte autorevole né di letteratura né di policy – dall’OCSE alla Commissione Europea, dalla Banca d’Italia al Ministero per lo Sviluppo Economico. Vengono invece definiti tali, citando testualmente, “quei servizi che consistono in un progresso scientifico ottenuto nei vari campi delle scienze naturali o sociali nelle tre aree della ricerca e sviluppo, ovvero: ricerca di base, ricerca applicata e sviluppo sperimentale”. Un attimo dopo si precisa che, in termini generali, il PCP comprende “unicamente i contratti di appalto di servizi di ricerca e sviluppo tecnologico (R&S) …” – e qui seguono varie precisazioni e qualificazioni, ma l’abbreviazione R&S è di fatto quella utilizzata con costanza nella restante parte del documento.

Volendo rimanere fedeli all’interpretazione letterale del testo, un primo punto fermo è dunque che il PCP abbia per oggetto “servizi di ricerca e sviluppo tecnologico”, non altri che tali non siano o non possano essere definiti come tali. Un secondo punto fermo è che, per qualche ragione non chiara, il Comunicato abbia inteso distinguerli dai servizi di ricerca e sviluppo tout court, descritti in qualche modo nel paragrafo appena precedente. Pertanto, si deve logicamente inferire che un servizio di ricerca e sviluppo “non tecnologico” non abbia titolo per essere acquisito all’interno di un contratto di appalto pre-commerciale.

Questa conclusione per quanto logica appare inaccettabile per una serie di motivazioni. In primo luogo, la volontà del legislatore. Come infatti richiamato dallo stesso Comunicato, l’art. 14 della nuova direttiva europea sugli appalti 2014/24/UE fornisce una definizione del PCP a contrario, cioè menzionando il proprio ambito di applicazione diretta e residualmente quello del PCP. La norma richiamata, infatti, testualmente recita: “La presente direttiva si applica solamente ai contratti

per servizi di ricerca e sviluppo identificati con i codici CPV da 73000000-2 a 73120000-9, 73300000-5, 73420000-2 o 73430000-5” – e qui nuovamente seguono alcune condizioni. Ora, CPV sta per “Common Procurement Vocabulary”, che è un sistema di classificazione unitario dell’oggetto degli appalti pubblici, sviluppato in sede europea ed in vigore nel nostro Paese dal 15 settembre 2008. Appare quindi interessante capire in primo luogo quali servizi di ricerca e sviluppo non rientrino nello scopo della direttiva, per espressa esclusione dei codici appalto da parte della stessa. Essi sono raccolti nella tabella che segue, sulla scorta del sito ufficiale del CPV.

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Come si vede, a parte le tecnologie militari, oggetto di separata disciplina – in Italia, il decreto legislativo 15 novembre 2011, n. 208 espressamente richiamato al comma 6 dell’art. 1 del nuovo Codice dei Contratti – la tipologia chiave di servizi esclusi non pone enfasi sulla natura “tecnologica” degli stessi, ma sull’esistenza di un rapporto “consulenziale” con la stazione appaltante in materia di ricerca e sviluppo. Tale esclusione deve correttamente intendersi non al fine di poter utilizzare liberamente lo strumento del PCP per l’approvvigionamento di tali servizi, ma – anche per analogia con quanto sopra accennato in tema di tecnologie militari – con il riferimento ad altra disciplina e cioè quella degli incarichi esterni alla pubblica amministrazione, in ragione del rapporto fiduciario alla base dell’affidamento.

Ma se è vero quanto sopra, quali sono i servizi di ricerca e sviluppo che il legislatore esclude dalla direttiva europea, facendoli rientrare nel possibile ambito applicativo del PCP? Per comprenderlo occorre leggere fino in fondo l’art. 14 della direttiva, laddove esso specifica le condizioni, al manifestarsi dell’una o dell’altra delle quali ai codici CPV menzionati possa non essere abbinato in via automatica l’impiego di appalti pubblici di tipo “classico”. Esse sono:

a) Che i risultati della ricerca e sviluppo non appartengano esclusivamente all’amministrazione aggiudicatrice perché li usi nell’esercizio della sua attività (clausola di non esclusiva)

b) Che la prestazione del servizio non sia interamente remunerata dalla stazione appaltante, ovvero sussista un cofinanziamento dei costi della ricerca e sviluppo da parte della o delle imprese aggiudicatarie.

Con questo chiarimento, possiamo tornare a esaminare sotto una luce diversa i codici CPV citati nella direttiva, che al manifestarsi almeno di una delle due condizioni sopra indicate non rientrano più nell’ambito di applicazione della stessa, e quindi possano diventare oggetto di interesse per il PCP. Detti codici sono rappresentati nella tabella che segue:

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Come si può notare, rispetto alla tabella precedente è sparita la dicitura “Consultancy” (che figura solo nel titolo dell’intera famiglia di codici ma non in quelli dei singoli componenti) mentre non si fa alcun riferimento all’ipotetica distinzione fra servizi di ricerca e sviluppo “tecnologici” e non. Tale rappresentazione appare coerente con la letteratura statistica (OECD, UNESCO) e con le definizioni di ricerca e sviluppo comunemente utilizzate nei bandi europei e nazionali, dove le scienze umanistiche e sociali hanno pari dignità – seppur, comprensibilmente, minori apporti diretti di fondi pubblici – rispetto a quelle tecnologiche e sperimentali. Risulta inoltre allineata con la volontà del legislatore europeo di distinguere l’oggetto ipotetico di un appalto precommerciale, non già in base alla natura “merceologica” dei servizi resi (fatta eccezione per le tecnologie militari), ma al loro carattere più industriale e meno artigianale (rectius consulenziale) per un verso, e per altro all’interesse dell’amministrazione aggiudicatrice, che sottende la sua libertà di contrarre.

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