Grandi dimissioni: anche la PA può e deve essere attrattiva

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Per competere sul mercato dei talenti le amministrazioni devono progettare modelli organizzativi capaci di venire incontro alle istanze delle persone, rivedere gli spazi, ripensare stili di leadership e strumenti di comunicazione, investire sullo sviluppo professionale e sul benessere dei lavoratori. Insomma, per vincere questa sfida le amministrazioni dovranno dimostrare di sapersi prendere cura delle persone e di meritare la loro fiducia e il loro impegno

1 Marzo 2023

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Mariano Corso

Responsabile Scientifico, Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano

Foto di Maxim Kharkovsky su Unsplash - https://unsplash.com/it/foto/7IIJ6nFwsJY

“Questo articolo è tratto dal capitolo “Lavoro pubblico e cambiamento organizzativo” dell’Annual Report 2022 di FPA. Per leggere tutti gli approfondimenti scarica la pubblicazione”

Le “Grandi Dimissioni”, ovvero la tendenza che vede numerose persone dimettersi volontariamente dai propri posti di lavoro in seguito all’emergenza Covid-19, sono apparse dapprima negli Stati Uniti ma il fenomeno è sempre più pervasivo anche nel nostro paese.

Sempre più lavoratori decidono di dimettersi e molti di più sono i cosiddetti intenders, coloro che, pur non avendo dato le dimissioni, hanno intenzione a breve di farlo. Da una ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano emerge che il 47% dei lavoratori privati dichiara di aver cambiato lavoro nell’ultimo anno o di avere intenzione a farlo da qui a 18 mesi. Sono numeri impressionanti, proprio perché si verificano in Italia, nonostante l’alto tasso di disoccupazione, nonostante la rigidità del mercato del lavoro, nonostante il mismatch di competenze e professionalità che rende fragile l’impiegabilità di gran parte dei lavoratori e nonostante la scarsa propensione alla mobilità degli italiani. Certo, non è raro che i lavoratori siano insoddisfatti del proprio lavoro, particolarmente nel nostro paese: secondo Gallup i lavoratori soddisfatti del proprio lavoro, che in Europa sono mediamente il 10%, in Italia sono solo il 5%. E non è affatto strano che in una situazione in cui pandemia, guerra, tensioni economiche e geopolitiche sono causa di ansia e incertezza, l’insoddisfazione possa tramutarsi in un vero e proprio malessere.

Questo fenomeno non risparmia le pubbliche amministrazioni italiane che subiscono il trend con numeri inferiori ma altrettanto preoccupanti. Nella PA in particolare non mancano gli intenders: i lavoratori pubblici che si dichiarano intenzionati a cambiare lavoro sono ben il 29%, meno rispetto al settore privato, ma davvero tanti per un comparto considerato a torto o ragione dominato dalla logica del “posto fisso”. Spesso, infatti, il disagio provato dalle persone non riesce a tradursi in effettive dimissioni per mancanza di opportunità e a dare le dimissioni sono solo coloro che hanno in mano valide alternative, o che stanno talmente male da non poterne proprio più. Molti di più sono coloro che vorrebbero cambiare lavoro ma che, proprio per le su citate rigidità, restano, senza entusiasmo né motivazione. Sono persone che per necessità ‘vanno a lavoro’, un lavoro che sentono però non rappresentarli.

Anche su questo fronte la ricerca del Politecnico di Milano fornisce evidenze che consentono di vedere quanto il fenomeno sia rilevante nel settore pubblico: in generale soltanto il 10% dei lavoratori italiani dichiara di “stare bene” in termini di benessere fisico, sociale e psicologico. Se poi si prendono in considerazione i soli dipendenti pubblici, questa già piccola percentuale cala al 4%. L’aspetto più critico è quello psicologico, dove ben l’89% dei lavoratori pubblici denuncia di trovarsi in uno stato di “malessere psicologico”.

Non è un caso che questo malessere si manifesti proprio con l’uscita dall’emergenza sanitaria: il crollo del livello di benessere ed engagement dei lavoratori è lo specchio di un fenomeno che, se non innescato, è stato certamente accelerato dalla pandemia.

La routine, i rapporti gerarchici, i luoghi stessi di lavoro, erano una zona di comfort che alimentava l’illusione di sicurezza e stabilità. L’ansia per la salute propria e delle proprie famiglie, l’incertezza legata alla instabilità politica ed economica hanno messo in discussione queste certezze. La pandemia ha sicuramente generato importanti disagi e acuito problematiche pregresse riguardanti numerosi aspetti della vita delle persone, incluso il lavoro. Ma nel settore pubblico tra le cause di malessere vanno anche annoverate una carente organizzazione del lavoro, strumenti inadeguati, formazione insufficiente, assenza di flessibilità e spazio per l’innovazione e l’imprenditorialità personale, e poi la sensazione di non vedere riconosciuti e valorizzati i propri talenti e il proprio impegno, la propria professionalità.

La gestione dello Smart Working da parte del precedente Governo è stata sicuramente una delle fonti di malessere. Spinti a lavorare da remoto, molti lavoratori durante la pandemia hanno sperimentato un nuovo modo di lavorare e hanno scoperto che un modo diverso e più intelligente e sostenibile di fare le cose c’è ed è spesso sorprendentemente efficace non solo per sé stessi, ma anche per l’amministrazione e il cittadino. Durante la pandemia, di fronte a vincoli ed emergenze, in tantissimi si sono impegnati, hanno saputo dimostrare di essere responsabili, capaci di autonomia e problem solving. E in un primo momento, proprio a fronte dei risultati ottenuti, della disponibilità e resilienza dimostrata si sono sentiti assicurare che quella sarebbe diventata la modalità ordinaria di lavorare della PA.

Ma, in controtendenza con quanto nel frattempo avveniva nel privato, nel pubblico impiego si è passati ad affermare per decreto che solo il lavoro “in presenza” è la modalità ordinaria di svolgere le prestazioni, che lo Smart Working è solo un’eccezione e non uno strumento di miglioramento delle prestazioni, ma piuttosto un ‘privilegio’ per poche amministrazioni avanzate che dimostrino di avere già raggiunto livelli elevati di prestazioni. Nel giro di un anno e mezzo a quasi il 70% degli oltre 1,8 milioni di lavoratori pubblici ai quali durante la pandemia era stato consentito, anzi richiesto, di lavorare da remoto, si è chiesto di tornare a lavorare soltanto in ufficio.

Ma tornare davvero al passato è impossibile: sebbene, imperfetta e forzata, anche quella forma temporanea di Smart Working aveva portato le persone a mettere in discussione l’inerzia della quotidianità e a chiedersi se il loro lavoro gli piace, se il loro capo li fa crescere, se la società e l’amministrazione per cui lavorano riconoscono e meritano il loro impegno. E ancora più nel profondo molti hanno iniziato a chiedersi se il lavoro debba per forza essere “fatica”, “travaglio”, o non possa essere esso stesso “vita”, “opera”, uno dei modi fondamentali per dare un senso alla nostra vita, per avere impatto, lasciare traccia.

Se compreso e gestito in profondità il disagio che è alla radice di questa crisi può essere un punto di svolta, l’occasione per progettare modelli organizzativi, sistemi di welfare e retribuzione, che non siano pura conciliazione. Per fare questo occorre innanzitutto ascoltare, capire cosa chiedono davvero i lavoratori, sia quelli che danno le dimissioni sia quelli che, per scelta o necessità, decidono di restare. Se andiamo nel profondo scopriamo che la domanda fondamentale che muove i lavoratori, nel mondo pubblico come in quello privato, è una ricerca di senso, di benessere e realizzazione come persone a 360 gradi. Coloro che vogliono dare le dimissioni in molti casi non desiderano lasciare solo un’organizzazione, un contratto, ma un sistema di relazioni non appaganti, un lavoro che non li soddisfa, una vita in cui si sentono imprigionati e che non offre loro prospettive.

Non ascoltare e comprendere questa crisi e non saperla interpretare con lungimiranza nel mondo della pubblica amministrazione vuol dire inevitabilmente far perdere competitività al paese a scapito di tutti i cittadini di oggi e della prossima generazione. È una sfida che riguarda tutti. Riguarda certamente le pubbliche amministrazioni, che con la caduta del benessere e dell’engagement dei lavoratori rischiano di compromettere la qualità dei propri servizi e la propria attrattività. Per competere sul mercato dei talenti le amministrazioni dovranno progettare modelli organizzativi capaci di venire incontro alle istanze delle persone, rivedere gli spazi, ripensare stili di leadership e strumenti di comunicazione, investire sullo sviluppo professionale e sul benessere dei lavoratori. Insomma, per vincere questa sfida le amministrazioni dovranno dimostrare di sapersi prendere cura delle persone e di meritare la loro fiducia e il loro impegno.

La sfida non riguarda solo le PA, ma anche i lavoratori pubblici. Occorre passare dal momento della consapevolezza e della voglia di evasione, alla concreta costruzione di un nuovo equilibrio di vita. Occorre recuperare energia, entusiasmo e scommettere sull’impatto che lavorare nella pubblica amministrazione può avere sulla società e il paese. Il disagio, il timore, l’insoddisfazione per lo status quo, devono tradursi in una determinazione a investire su sé stessi per sviluppare nuove skills e ritrovare passione ed engagement nel proprio lavoro.

La sfida riguarda anche i Policy Maker che non possono certo restare indifferenti né fare marcia indietro; devono avere il coraggio di promuovere una riforma del lavoro pubblico che faciliti e premi chi investe in professionalità e competenze, chi propone modelli di organizzazione del lavoro più moderni e inclusivi, chi si impegna ad offrire un lavoro sostenibile e di qualità.

Infine, un ruolo importante è quello che spetta ai Sindacati chiamati in questa fase storica a rappresentare le nuove esigenze, dando voce al cuore e alla testa, e non solo alla pancia, di tutti i lavoratori, quelli di oggi e quelli di domani. Lo devono e possono fare oggi ad ogni livello, facendosi parte propositiva nella promozione e progettazione di nuovi modelli organizzativi all’interno delle aziende pubbliche come di quelle private, così come della revisione di una normativa per molti versi obsoleta che rischia di frustrare e impedire l’evoluzione del mercato del lavoro pubblico verso modelli più sostenibili e dignitosi. Dovranno avere il coraggio di mettere in discussione vincoli rigidi relativi agli orari e ai luoghi di lavoro, di occuparsi di inclusione, di merito, di creazione e condivisione di valore. Ai sindacati spetta anche il compito di tutelare i lavoratori da nuovi rischi di sfruttamento ed emarginazione dovuti ad usi scorretti o non inclusivi della tecnologia: iperconnessione, tecnostress, assenza di investimenti sull’alfabetizzazione digitale, sono problemi che vanno compresi e affrontati, non in una logica di conflitto, ma di gioco a somma positiva.

La costruzione del futuro del lavoro è una sfida che si vince o si perde assieme.

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