Lo Smart Working nella PA: ripensare il lavoro per un futuro sostenibile

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Occorre riflettere urgentemente su cosa sia il ‘vero Smart Working’, che può e deve essere per le pubbliche amministrazioni l’occasione per attuare un cambiamento profondo, incentrato sul lavoro per obiettivi e una digitalizzazione intelligente delle attività, perché il rischio più grande oggi è che una malintesa ‘normalizzazione’ del modello organizzativo porti a ricondurre lo Smart Working al solo lavoro da remoto, inteso come ‘concessione’ di un nuovo privilegio finalizzato al miglioramento del work-life balance dei lavoratori pubblici

3 Febbraio 2023

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Alessandra Gangai

Senior Consultant, P4I e Direttrice Tavolo Smart Working nella PA, Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano

Foto di bruce mars su Unsplash - https://unsplash.com/it/foto/S8ffHr_dxHo

Questo articolo è tratto dal capitolo “Lavoro pubblico e cambiamento organizzativo” dell’Annual Report di FPA presentato il 27 gennaio 2023. Per leggere tutti gli approfondimenti scarica la pubblicazione

L’esperienza forzata ed emergenziale che milioni di lavoratori hanno fatto durante il periodo della pandemia ha segnato un punto di svolta per lo Smart Working in Italia, in particolare nel settore pubblico. A inizio 2020 lo Smart Working riguardava appena 600.000 lavoratori di cui poco più di 40.000 dipendenti pubblici. Questo nonostante da tempo l’applicazione dello Smart Working, o lavoro agile, fosse stata riconosciuta come un obiettivo strumentale ad una digitalizzazione e managerializzazione della PA.

Con l’avvento della pandemia, sin dai primi decreti governativi, l’adozione dello Smart Working è stata utilizzata come leva per far fronte all’emergenza sanitaria, garantendo al tempo stesso distanziamento sociale e continuità dei servizi. Ovunque possibile, sia nel settore privato che in quello pubblico, lo Smart Working è stato promosso come modalità preferibile quando non addirittura obbligatoria di lavoro. Il numero di lavoratori ‘da remoto’ è di conseguenza aumentato enormemente toccando, tra lockdown e successiva ripartenza, un picco stimabile in oltre 6 milioni e mezzo, vale a dire più di un terzo dei lavoratori dipendenti in Italia. Tra questi i dipendenti pubblici erano oltre 1,8 milioni, pari a oltre il 50% del totale.

Non stupisce che, a fronte di questo radicale e repentino aumento di diffusione, lo Smart Working sia balzato al centro dell’attenzione mediatica e dei dibattiti pubblici, con l’indubbio vantaggio di aumentarne la conoscenza e l’attenzione, ma con anche il rischio che il concetto stesso di Smart Working sia stato dai più associato all’esperienza emergenziale, sostanzialmente confuso con il telelavoro e ricondotto riduttivamente a politiche di welfare e conciliazione vita-lavoro piuttosto che a un nuovo modello organizzativo.

Lo Smart Working, però, è qualcosa di completamente diverso: è una filosofia manageriale, un nuovo modello organizzativo capace di restituire al lavoratore autonomia e flessibilità nella scelta degli orari, dei luoghi di lavoro a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati. Il vero cambiamento che ne deriva è epocale: si passa da un management tradizionale, orientato al presenzialismo e al controllo degli adempimenti, a uno nuovo che ha dei principi che sono profondamente diversi, quali il superamento della cultura del sospetto e del formalismo a favore di una fiducia misurata e controllata nei confronti del lavoratore, l’importanza della collaborazione, della capacità della persona di essere responsabile, della meritocrazia, dell’apertura e della flessibilità.

Con la fine dell’emergenza sanitaria molte realtà hanno deciso di tornare a modelli di lavoro tradizionali e lo Smart Working è stato adottato nel 2022 solo nel 57% degli enti, a fronte del 67% dell’anno precedente. Il numero di lavoratori pubblici a cui è data la possibilità di lavorare da remoto è attualmente stimabile in 570 mila, con una riduzione di ben il 33% rispetto all’anno precedente ed addirittura del 70% rispetto al picco toccato durante la pandemia. Il contrasto è palese con quanto accade nelle grandi imprese private dove oggi oltre il 91% delle organizzazioni propone modelli di Smart Working e il numero di smart worker si è attestato a 1.840.000, in crescita rispetto all’anno precedente e non lontano dai 2.110.000 del picco toccato durante la pandemia.

Per il 2023 tuttavia, le aspettative delle pubbliche amministrazioni sono quelle di un’inversione di tendenza, con una crescita prevista di circa il 20% del numero di lavoratori coinvolti.

Al netto della dinamica legata a diverse visioni ideologiche, non si può non riconoscere come l’esperienza degli ultimi due anni abbia portato numerosi lavoratori e pubbliche amministrazioni a confrontarsi con un nuovo modo di lavorare, a adottare nuovi strumenti, a digitalizzare processi ed eliminare inutili procedure. Il rischio più grande oggi è che una malintesa ‘normalizzazione’ del modello porti a ricondurre lo Smart Working al solo lavoro da remoto, inteso non come occasione di ripensamento dei processi e assunzione di autonomia e responsabilità, quanto piuttosto come ‘concessione’ di un nuovo privilegio finalizzato al miglioramento del work-life balance dei lavoratori pubblici.

Questa pericolosa deriva, come dimostrano i recenti studi pubblicati dal Politecnico di Milano, non solo riduce drasticamente l’impatto positivo sulle prestazioni delle organizzazioni, ma finisce con il ripercuotersi sugli stessi lavoratori, non solo in termini di engagement e crescita professionale, ma anche di benessere psicologico e relazionale. Occorre quindi riflettere urgentemente su cosa sia il ‘vero Smart Working’, che può e deve essere per le pubbliche amministrazioni l’occasione per attuare un cambiamento profondo, incentrato sul lavoro per obiettivi e una digitalizzazione intelligente delle attività. Quello che molti lavoratori pubblici si sono trovati e si trovano tutt’oggi a sperimentare, non è il ‘vero’ Smart Working, ma una forma di lavoro da remoto nel quale vengono a mancare quei presupposti di autonomia e responsabilizzazione sui risultati su cui si dovrebbe fondare ogni accordo di Smart Working. Questa situazione porta con sé criticità come senso di isolamento, perdita di engagement e identità, che difficilmente si riscontrano in un modello di Smart Working più maturo.

Oggi siamo quindi in un momento importantissimo in cui, archiviata finalmente e speriamo in modo definitivo la logica dell’emergenza, le pubbliche amministrazioni devono decidere che organizzazione del lavoro e proposizione di valore proporre, non solo ai loro lavoratori attuali, ma anche ai potenziali candidati. Le possibilità sono tre:

  • restare, o tornare, ad un modello di lavoro tradizionale in presenza;
  • stabilizzare la possibilità di lavorare parzialmente da remoto, limitando però la flessibilità a questo aspetto, senza mettere in discussione la gestione degli orari e il modello organizzativo e di leadership;
  • procedere verso un modello di Smart Working completo, accompagnando una progressiva e sempre più differenziata flessibilità nella scelta dei luoghi di lavoro, con interventi sulla flessibilità nella gestione dell’orario di lavoro, sulle competenze digitali, sul ridisegno degli spazi e sull’evoluzione del modello manageriale e di leadership nella direzione del lavoro per obiettivi.

Queste scelte sono destinate ad avere un impatto sostanziale sull’organizzazione del lavoro pubblico, le sue performance, ed il benessere e l’engagement dei lavoratori. Già oggi i risultati della ricerca 2022 dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, mettono in luce come le organizzazioni che mantengono un modello tradizionale di lavoro in presenza, hanno avuto nell’ultimo anno incrementi minori in termini di efficienza, efficacia e capacità di innovazione e hanno diminuito la loro capacità di attrarre e trattenere risorse. Poco migliore è la situazione delle realtà che si sono fermate al solo lavoro da remoto, senza intervenire sulle altre componenti del modello organizzativo, che hanno prestazioni decisamente inferiori rispetto a quelle che applicano modelli più completi di Smart Working.

Indicazioni analoghe, ma ancora più nette, vengono dall’analisi fatta sui lavoratori e sul loro benessere nella quale sono stati identificati tre cluster:

  • lavoratori on-site, che lavorano stabilmente presso la sede di lavoro;
  • lavoratori remote non smart, che hanno la possibilità di lavorare da remoto, ma non godono di altre forme di flessibilità;
  • smart worker, che hanno flessibilità sia di luogo, sia oraria e lavorano secondo una logica orientata al raggiungimento degli obiettivi.

Analizzando il benessere dei lavoratori, tanto dal punto di vista psicologico quanto relazionale, gli smart worker mostrano livelli di benessere ed engagement più alti sia rispetto ai lavoratori on-site che a quelli remote non smart. Questi ultimi, in particolare, mostrano livelli di engagement e benessere più bassi su molte dimensioni anche rispetto ai lavoratori on-site. Il solo lavoro da remoto, quindi, se mancante di altre caratteristiche di autonomia e non inserito in una cornice più ampia di empowerment e revisione dei modelli manageriali e di leadership, non solo non porta ai benefici organizzativi tipici dello Smart Working, ma può condurre a esiti peggiori persino rispetto a chi non ha alcuna forma di flessibilità.

Le amministrazioni che, avendo inizialmente applicato lo Smart Working in modo emergenziale, lo stanno stabilizzando riconducendolo a un mero lavoro da remoto, devono essere consapevoli del rischio che questa scelta comporta. Se è vero che tornare indietro a un modello tradizionale di lavoro totalmente in presenza può incontrare resistenze o essere impopolare, fermarsi ad un’applicazione superficiale, senza un’evoluzione coerente del modello organizzativo e manageriale, rischia di condurre ad una situazione addirittura peggiore. Solo accompagnando il lavoro da remoto con una crescita di autonomia anche nella gestione degli orari di lavoro e nel lavoro per obiettivi si può arrivare ad un modello di Smart Working coerente e sostenibile che porta al miglioramento di engagement e benessere delle persone, ad una migliore produttività e capacità di innovazione per le organizzazioni e a benefici per la società e l’ambiente nel suo insieme.

La sfida, quindi, è uscire finalmente da un dibattito ideologico quanto sterile tra opposte tifoserie e prendere atto che il mondo del lavoro è cambiato per sempre, e che anche nel settore pubblico occorre promuovere nuovi modi di lavorare più moderni, sostenibili ed intelligenti. La posta in gioco è assai elevata perché, come l’esperienza della pandemia ci ha insegnato, il cambiamento nei modi di lavorare trascende l’organizzazione del lavoro e finisce per influenzare le città, i territori, e in ultima analisi ogni aspetto della nostra vita e della società in cui viviamo.

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