Il mobbing, fra mobber e mobbizzato. Ma chi è il vero malato?

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Un recente convegno ha messo in luce alcuni aspetti non del tutto conosciuti rispetto al fenomeno. Quelli più deleteri, ma anche altri, del tutto sorprendenti. Per esempio, che un singolo episodio del genere costa alla collettività il 190% in più dello stipendio annuo della vittima. Oppure che è il suo “carnefice” a soffrire di gravi patologie, soprattutto per quella di essere un “narcisista perverso”, e assolutamente bisognoso – lui! – di cure e attenzioni sanitarie approfondite. Per non parlare del “campionario” delle ingiurie, con tanto di creatività insultante assolutamente meritevole di citazione…

7 Febbraio 2012

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Tiziano Marelli

Articolo FPA

Abbiamo già trattato in un altro nostro corsivo il grave problema del mobbing, invitando in quell’occasione alla lettura del libro di una dirigente romana della pubblica amministrazione, Caterina Ferraro Pelle: il numero dei contatti allora raggiunto ci diede la dimensione del fenomeno e l’interesse che ne può scaturire, in maniera assolutamente generalizzata e trasversale. Sull’argomento torniamo anche oggi, prendendo spunto da quanto emerso al convegno ”Mobbing in uniforme”, organizzato dal Pdm (il partito per la tutela e diritti dei militari) che si è tenuto recentemente a Roma. Infatti, alcuni dati che ne sono scaturiti mi sembrano di particolare interesse, e quello che in assoluto più interessante lo riservo per ultimo, a mò di piccola chicca finale del PAssepartout.

Dunque, anzitutto conviene sapere che in ambito privato i contenziosi relativi al mobbing sono spesso caratterizzati da risoluzioni anticipate fra le parti, perseguite anzitutto dalle aziende che vogliono evitare una nomea negativa qualora si arrivasse a giudizio. Quindi, se in casi del genere la percentuale di addetti che ne è toccato arriva al 20% per il mobbing e al 14% per il demansionamento,  lo “spegnersi concordato” del problema dovuto ad un accordo fra le parti nel privato fa balzare in testa a questa particolare classifica proprio la pubblica amministrazione e la difesa, con il 7% di casi di vessazioni e il 10% di demansionamenti; segue la sanità con l’8% (le donne, in generale, sono la maggioranza, e toccano il 55% dei casi).
Nel particolare, come ha sottolineato nell’occasione il segretario del Pdm Luca Comellini, “Il problema è che la Difesa non riconosce che vi sia il mobbing tra i militari, eppure si continuano a ricevere segnalazioni da militari, Guardia di Finanza e Carabinieri, di vessazioni, demansionamenti, avanzamenti di carriera bloccati. Non è un caso che negli ultimi dieci anni si siano registrati 228 suicidi di carabinieri con l’arma d’ordinanza”. Invece, secondo Mauro Di Fresco del Nursind (il sindacato delle professioni infermieristiche), “la figura del mobbizzato per eccellenza è quella dell’infermiere, vessato da medici, pazienti e direzione sanitaria”.

Al di là di queste dichiarazioni “settoriali”, da una ricerca presentata nell’occasione è risultato che il mobbing comporta pesante isolamento lavorativo, familiare, sociale, e che con il suo perpetrarsi la vittima arriva fino all’espulsione e alla perdita del lavoro tout court. Le diverse forme di mobbing implicano sindromi e patologie psicologiche e morali che costringono all’assenza dal posto di lavoro per curarsi, e che di conseguenza comportano gravissimi danni alla salute.
Il percorso perverso che deve subire un mobbizzato è equiparabile ad un autentico calvario: questi diviene un capro espiatorio per i problemi legati all’ambiente di lavoro, è costretto a trasferimenti continui, a vedersi rifilare incarichi minori, passando dalla malattia all’esclusione dal lavoro ed all’ingresso nel campo delle problematiche sociali (leggesi: disoccupazione) con conseguente aumento dei problemi e del disagio, per arrivare infine ed ineluttabilmente al prepensionamento.

È a questo punto che il problema diventa di tutti, quindi sociale, per le cure e le garanzie che alla vittima in questione devono essere garantite. E qui viene la parte più interessante, a voler essere un po’ cinici. Sì, perché ad una prima “lettura” del fenomeno si potrebbe pensare che il problema è quasi “privato”, giocato sul filo della contrapposizione fra due soli soggetti: il mobbizzante e il mobbizzato, e che le eventuali implicazioni economiche siano da restringere in questo doppio ambito. E invece non è così, perché un episodio di mobbing, nel suo complesso, costa alla collettività il 190% in più dello stipendio (in termini di salario medio annuo) per improduttività, spese mediche, spese legali, spese previdenziali, malattia e (appunto) prepensionamento. In parole povere, è facile fare i “duri” (il mobbizzante) quando poi a pagarne (in tutti i sensi) sono gli altri, cioè noi.

Vogliamo vedere come si può anche “verbalizzare” questo essere “duri” e crudeli? Dal campionario di modi e termini che la casistica legale finora ha accumulato possiamo trarre qualche spunto illuminante, e quelle che seguono sono tutte pesanti offese realmente formulate, e riconosciute come reato dalla Cassazione. Anzitutto si deve sapere che le ingiurie sul posto di lavoro sono considerate mobbing se ripetitive e finalizzate ad umiliare, vessare e costringere il lavoratore a lasciare il posto di lavoro o a piegarsi alla volontà della maggioranza o del superiore gerarchico. Fra queste compaiono vere azioni da cuor di leone, come: spintonare il vessato o addirittura sputargli addosso (avete letto bene), oppure rivolgersi a lui con frasi da veri gentiluomo del tipo: “non capisci un cazzo”, “vai a cagare”, “sei un ricchione” o (figurarsi se poteva mancare!) “sei una cicciona”; molto gettonato in termini sessisti anche “per questo lavoro serve un uomo”, e di particolare creatività “hai una natura lewinskiana, fai delle farneticazioni uterine” (doppia puntualizzazione che testimonia del grado di finezza dell’autore). Il classico “vaffa…” merita una puntualizzazione prontamente colta dai nostri legislatori, testuale: è reato solo se si mostra il dito medio; non è reato anche se si mostra il dito medio ma si deve litigare incidentalmente cioè senza conoscersi; se invece ci si conosce è reato.

Quello che ho pensato leggendo quest’ultimo elenco è che il vero malato di tutta questa storia deve essere proprio considerato il persecutore, e al volo mi è venuta in soccorso la stessa ricerca sopracitata, ed è questa la chicca che volevo riservare per il gran finale. Infatti, molto studi hanno comprovato che il mobber è un autentico frustrato che scarica i suoi problemi personali sugli altri, un istigatore alla ricerca di nuove cattiverie, un megalomane con una propria visione distorta di quanto lo circonda e, dulcis in fundo, un narcisista perverso. Questi ultimi, secondo la psicoterapeuta familiare francese Marie France Hirigoyen “sono soggetti psicotici senza sintomi che trovano il loro equilibrio scaricando su altri il dolore  che non sono capaci di  provare, e le contraddizioni interne che rifiutano di prendere in considerazione. Questo transfert del dolore permette la loro valorizzazione a spese dell’altro”.

Quindi, per finire lancio un appello, che spero qualcuno raccolga: la cosa più importante da fare quando si palesa un caso di mobbing non è tanto andare a cercarne le cause, ma piuttosto risalire alla sua origine – cioè a chi lo ha procurato – e intervenire subito per curare il sadico vessatore, mettendolo anche il più in fretta possibile nella condizione di non combinare altri disastri del genere. È pur vero che le spese sanitarie saranno anche in questo caso a nostro carico e sapendo che razza di soggetto mandiamo a curare ci potrebbe passare la voglia, ma così facendo può essere pure che si risparmia. Vinciamo la ritrosia, allora, che alla lunga ne può valere senz’altro la pena, e alla fin fine ne guadagneremo tutti in salute.

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