Economia collaborativa: i dati aperti oltre la retorica della trasparenza

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La relazione tra Open Data ed Economia collaborativa. A Shareitaly 2016 un momento di riflessione per conoscere impatto e potenzialità economiche e sociali del nuovo paradigma dello sharing

2 Novembre 2016

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Davide Arcidiacono, ricercatore in Sociologia Economica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e Giuseppe Reale, esperto in analisi comparativa delle strategie Open Data

Non sono in molti ad associare la questione dei dati aperti all’economia collaborativa, seppure il dibattito sull’open data preceda la pubblicazione del “best-seller” di Botsman e Rogers “What’s Mine is Yours” e la copertina dell’Economist del 2013 che faceva del concetto di “sharing economy” quel termine ombrello che è diventato quasi mainstreaming nei discorsi di manager, startupper, consulenti, prima ancora che tra i consumatori.

Non bisogna dimenticare che la battaglia dell’Open Access, a cui la questione dell’Open Data comunque si lega, è stata forse la prima grande battaglia sui modelli di economia collaborativa. Pionieristicamente potremmo definirla il “papà” della sharing economy (o il “nonno”, se consideriamo la velocità dei processi di innovazione tecnologica) senza il quale non si parlerebbe oggi di quella che Benkler e Nissembaum definiscono commons-based peer production. La stessa etica hacker, non nel significato “sovversivo/terroristico” che gli attribuisce il senso comune, ma nella sua natura storico-etimologica, rappresenta un tassello della storia dell’economia della condivisione e della co-produzione se la intendiamo come quel gruppo di esperti che interagiscono per lo più on line e adottano e promuovono modelli di programmazione creativa e collaborativa, aperti ad una concezione incrementale e trasformativa delle conoscenze messe in comune.

La scelta di Sharitaly 2016 ( che si terrà il 15-16 novembre a Milano, vedi www.sharitaly.com), come evento che alza sempre l’asticella sui livelli del dibattito e di awareness sui temi della collaborazione, si fa carico in qualche modo di fare chiarezza, in particolare nel panorama italiano, dove si continua a fare confusione tra Open Data, Open Government e Trasparenza. Non è che tra i tre concetti sopra menzionati non esista alcuna relazione, tutt’altro. Tuttavia, come spesso accade nel discorso pubblico e politico nostrano, la specificità delle relazioni tra i tre fenomeni non è sempre chiara, e spesso (ma questa è l’opinione di chi scrive) in maniera voluta.

Così come per l’economia sharing si fa spesso confusione tra questa e forme di lavoro/prestazione on demand, allo stesso modo ormai Open Data/Open Gov/Trasparenza sembrerebbero diventati, erroneamente, sinonimi. Eppure una distinzione chiara esiste: con il termine Open Governament si intende quel processo gestionale, aperto e trasparente dell’amministrazione pubblica, locale e centrale; la trasparenza amministrativa attiene piuttosto agli obblighi di legge relativi alla pubblicazione delle informazioni della pubblica amministrazione, in modo che siano immediatamente conoscibili ai cittadini; gli Open Data non coincidono necessariamente con i dati messi in trasparenza, ma rappresentano sia tutti quei dati della pubblica amministrazione – allora si parla di Open Government Data – sia di privati, rilasciati in formato aperto, accessibile, interoperabile e riutilizzabile volti proprio alla costruzione di processi non solo di controllo e monitoraggio basato sulla condivisione ed estrazione di nuova conoscenza, ma anche di co-produzione e co-generazione di nuovi prodotti/servizi. I dati liberati possono essere uno strumento dell’Open Government e pertanto di accountability e trasparenza, ma il loro valore non si esaurisce e non coincide soltanto con questi obiettivi. Lo dice chiaramente la Commissione Europea nella comunicazione “Dati aperti, un motore per l’innovazione, la crescita e una governance trasparente”, dove si sottolinea come rendere disponibili e fruibili le PSI (public sector information) rappresenta soprattutto un pre-requisito per la crescita dell’economia digitale nell’euro-zona. L’Open Data è, quindi, prima di tutto un volano dell‘economia collaborativa prima ancora che un (potenziale) strumento di controllo in mano ai cittadini.

Se guardiamo alla dimensione di impatto che è al centro della riflessione di Shairtaly di quest’anno, le analisi più rilevanti ci vengono proprio dalla Commissione Europea che ha stilato un rapporto in cui cerca di misurare il valore attuale e potenziale generato dagli Open Data nell’EU a 28. La Commissione ci dice che è certamente aumentata dal 2011 a questa parte la presenza di politiche open data e più del 70% dei paesi dell’Unione a 28 ne ha una, ma l’impatto è ancora limitato se lo si confronta con alcuni benchmark come gli Usa, anche perché il grado di apertura e riusabilità dei dati a fini commerciali continua ad essere limitato, relativamente al tipo di licenza usata o al grado di interoperabilità dei dataset rilasciati. La dimensione del mercato diretto e indiretto attuale è di 55,3 miliardi di euro, con un aumento prospettato del 36,9% entro il 2020. In termini di impatto sui posti di lavoro (escludendo chi lavora nel pubblico, istituti di statistica e altra amministrazione) il numero totale è di 75.000 posti di lavoro creati intorno al sistema degli Open Data, che nel 2020 dovrebbero diventare 100.000. Il progetto Open Data 200, condotto dalla Fondazione Bruno Kessler (e di cui Maurizio Napolitano, relatore della sezione Dati e Governance di Sharitaly, è membro del team di ricerca) è il primo studio sistematico sulle imprese italiane che utilizzano open data nelle loro attività per generare prodotti e servizi e creare valore sociale ed economico. Ma a Milano, il 16 novembre, ne parleremo anche con Federico Morando, fondatore di Synapta, start-up che lavora quotidianamente sui linked open data.

Ma quando parliamo di dati aperti guardiamo ad una sfida che non è solo nazionale, ma mette in gioco soprattutto i territori e le città. Quando si fa riferimento a smart cities o sharing cities stiamo guardando modelli di città in cui i dati sono liberi, accessibili e riutilizzabili anche a fini commerciali. I maggiori progetti di portali Open Data nelle grandi città europee, da Londra a Stoccolma, da Parigi a Vienna, ambiscono ad essere di più di semplici “vetrine” o repository di dati pubblicati e scaricabili, ma piuttosto a diventare la piattaforma della collaborazione, un community HUB in cui cittadini, imprenditori, associazioni no profit, esperti si confrontano ed elaborano soluzioni sui diversi problemi urbani attraverso i dati liberati. In questo senso la presenza di Forum PA a Sharitaly, con il suo direttore Gianni Dominici, rappresenta un contributo fondamentale sul tema delle interazioni/intersezioni collaborative tra pubblica amministrazione, imprese, mondo della ricerca e società civile.

L’Italia, nonostante l’Europa ci consideri tra i leader delle politiche open data, conterebbe ad oggi circa 10.346 dataset della Pubblica amministrazione liberati. Il problema però non è solo numerico ma anche di qualità dei processi di liberazione dei dati. In questo senso I ranking mondiali come l’Open Data Barometer (ODB) confermano UK e USA come leader, mentre l’Italia nel 2015 è scesa alla 21esima posizione rispetto alla ventesima dell’edizione 2013. Nel duro gioco dei ranking internazionali certamente il Paese sconta un deficit storico in tema di digitalizzazione e innovazione della PA, oltre che limiti infrastrutturali. Ma l’Italia sconta soprattutto un’ambiguità politica in cui si approfitta della vischiosità tematica dell’open data per sovrapporlo sic et simpliciter come strumento di messa in trasparenza e di “openwashing” della reputazione delle PA. In questa azione talvolta “propagandistica” sull’Open Data, il suo valore economico e i suoi processi produttivi collaborativi vengono come “occulatati”, creando una sproporzione del dibattito a favore della dimensione politica prima che economica, ridefinendo i pesi dell’una a svantaggio dell’altra, e contribuendo a rendere confusi e opachi gli obiettivi strategici definiti dalle politiche nazionali sul tema.

Sullo sfondo, e spesso misconosciute ai più ma non agli addetti ai lavori, opera la straordinaria vitalità delle community on line italiane, quelle dei cosiddetti civic-hacker, gruppi fortemente interconnessi in cui professionisti, imprenditori ed esperti dell’ICT, uniti a più comuni e semplici cittadini o a realtà associative, promuovono azioni di engagement ma anche di co-produzione sui dati aperti. La community italiana (riunita nel gruppo SOD-Spaghetti Open Data) sarebbe composta a sua volta da diverse sub-community territorialmente definite a livello regionale o urbano (da Open Data Matera, Sardinia Open data , Open Data Sicilia, Open Data Milano, ecc.), e di cui personalità come Matteo Brunati e Michele D’Alena, anche essi relatori del panel sui dati aperti di Sharitaly, sono due tra gli esponenti più noti.

Infine, come è stato anche osservato da numerosi analisti, promuovere l’Open Data significa anche “democratizzare” l’analisi dei dati aperti, significa favorire l’ empowerment dei cittadini a riusare i dati liberati. Questa nuova frontiera dell’accesso rappresenta un punto strategico e un piccolo contributo lo daremo a Sharitaly. Durante l’evento di quest’anno è stato previsto un vero e proprio laboratorio didattico-esperienziale per imparare a lavorare con i dati aperti in cui cittadini attivi, giornalisti, startupper, ricercatori, funzionari della PA, attivisti, studenti, e chiunque voglia conoscere cosa significa lavorare con i dati aperti e comprenderne le potenzialità.

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