Il riduzionismo normativo e comunicativo che blocca l’innovazione

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Tre eventi sugli Open Data degli scorsi giorni, apparentemente slegati tra di loro, mi hanno fatto riflettere sui limiti e le possibilità delle politiche dell’innovazione in Italia. L’immagine che ci viene restituita è quella che conosciamo bene di un paese ricco di energie vitali, con singole eccellenze distribuite a macchia di leopardo, ma che non fa sistema, non ha una visione che lo porta a non reggere i confronti internazionali. Non possiamo continuare a considerare l’innovazione come uno slogan da usare a tempo debito, come la foglia di fico per coprire la vergogna delle nostre inefficienze.

9 Aprile 2015

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Gianni Dominici

Tre eventi sugli Open Data degli scorsi giorni, apparentemente slegati tra di loro, mi hanno fatto riflettere sui limiti e le possibilità delle politiche dell’innovazione in Italia.

La presentazione della seconda edizione di Open data barometer. Si tratta di un lavoro importante e imponente redatto dalla World Wide Web Foundation che monitora lo stato dell’arte degli Open Government Data in 86 paesi da tutto il mondo raggruppandoli, tramite una cluster analysis, in gruppi omogenei. Il primo, denominato High-capacity descrive i paesi più avanzati dove governo, società civile e settore privato meglio che altrove hanno dimostrato la capacità di beneficiare degli open data. Fanno parte di questo gruppo: UK, US, Sweden, France, New Zealand, Netherlands, Canada, Norway, Denmark, Australia, Germany, Finland, Estonia, Korea, Austria, Japan, Israel, Switzerland, Belgium, Iceland and Singapore. Il secondo gruppo è denominato degli inseguitori e ospita il quindicesimo posto assoluto dell’Italia che è tra i pochi (sette in tutto) che da un anno all’altro hanno perso posti in classifica.

Il Raduno di spaghetti Open Data (#SOD15). Per il terzo anno consecutivo la community dei civic hackers si è radunata a Bologna per una tre giorni di lavoro e di confronto. Una community informale, senza medagliette o statuti che si cementa grazie ad un importante tema federatore e alla convinzione che attraverso la liberazione dei dati si possa sostenere la partecipazione civica e la creazione di valore pubblico. Gente che ha tanta fame di dati e che in pochi anni ha costruito una fitta rete di competenze.

La presentazione del progetto Open Data Lazio. Un progetto importante (che ci vede anche coinvolti) che ha portato alla realizzazione del portale dati.lazio.it ma che, soprattutto, prevede un sistema integrato di azioni finalizzate a diffondere la cultura e la pratica degli open data ai diversi livelli istituzionali del territorio con attività di informazione, formazione e assistenza.

Tre episodi slegati fra di loro? Non proprio. L’immagine che ci viene restituita è quella che conosciamo bene di un paese ricco di energie vitali (come le comunità SOD), con singole eccellenze distribuite a macchia di leopardo (come il neonato portale laziale) ma che non fa sistema, non ha una visione che lo porta a non reggere i confronti internazionali (come la classifica della WWWF). Proprio nel leggere i risultati della ricerca troviamo un’indicazione utile. I paesi in vetta alla classifica internazionale sono quelli che hanno definito delle specifiche politiche sugli Open Data fortemente sostenute politicamente. Sono paesi dove le politiche degli open data travalicano i singoli dipartimenti per coinvolgere le istituzioni nel loro complesso.

E allora capiamo cosa da noi non funziona. Non funziona che tutto venga ridotto ad ulteriore adempimento o a mera comunicazione.

Il riduzionismo normativo è uno dei mali della nostra pubblica amministrazione capace di metabolizzare e ridurre idee rivoluzionarie, culture emergenti e modelli innovativi a norma, leggi e scadenze. Retaggio di una visione burocratica e gerarchica della PA basata sull’adempimento invece che sul progetto, su obiettivi e sui risultati. E così accade che sono appena scaduti i termini dal decreto legge 90/2014, convertito dalla Legge 114 dell’11 agosto che prevede la sanzionabilità dei comuni che ad oggi non hanno liberato il proprio patrimonio informativo. Norma, regolamenti, scadenze, ovviamente disattese. Una ricerca dell’osservatorio e-government del Politecnico di Milano ha evidenziato che, ad oggi, solo il 41% dei comuni è formalmente in regola mentre il 66% addirittura non ha in programma di volerlo fare in futuro. Inoltre, due comuni su tre tra quelli che hanno pubblicato i dati non rispetta le Linee guida dell’Agenzia per l’Italia Digitale sulle modalità di pubblicazione dei dati.

Il riduzionismo comunicativo è, invece, uno dei mali della nostra politica. Da sempre. Capace di metabolizzare e ridurre idee rivoluzionarie, culture emergenti e modelli innovatici, invece, a mero annuncio, a scatola vuote. E così Open Expo è stato presentato come “il più grande progetto trasparenza realizzato in Italia”, soldipubblici.gov.it come “un’opera straordinaria di trasparenza”. Non è proprio così. Le capacissime persone che ci stanno lavorando si scontrano inevitabilmente con le resistenze organizzative, con la mancanza di una cultura diffusa della trasparenza che la politica si ostina a non vedere per cui basta andare sul sito di Open Expo per trovarlo, a una manciata di giorni dell’inaugurazione pieno ancora di missing e di “i dati necessari alla produzione di questo indicatore sono in via di acquisizione e di elaborazione” compreso, anzi, soprattutto, la sezione dedicata al famigerato Palazzo Italia i cui ritardi rischiano di imbarazzarci, come paese, al livello mondiale.

Non possiamo più permettercelo. È finita l’epoca delle inaugurazioni, delle autocelebrazioni e degli annunci. Non possiamo continuare a considerare l’innovazione, sia essa culturale, organizzativa o tecnologica come uno slogan da usare a tempo debito, come la foglia di fico per coprire la vergogna delle nostre inefficienze. Come un reality show permanente. Abbiamo bisogno di una vera politica dell’innovazione e della modernizzazione della PA, una politica che utilizzi la tecnologia come strumento per definire un nuovo rapporto con i cittadini e le imprese. Una politica che sia abilitante delle energie vitali e che trasformi le eccellenze isolate in sistema.

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