Quale ruolo per il cittadino del XXI Secolo? Spunti di riflessione per il nuovo governo

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Leggendo l’editoriale di Carlo Mochi Sismondi dell’8 febbraio scorso “Il programma facciamolo noi”, non ho potuto fare a meno di pensare quanto sia importante ragionare su questi due elementi: una nuova concezione di cittadinanza attiva (adeguata al Ventunesimo Secolo, che possa essere un tassello di quel futuro in cui vogliamo vivere) e la consapevolezza della realtà in cui siamo ora. La cittadinanza attiva che auspico è in grado di dialogare e di collaborare con una Pubblica Amministrazione in evoluzione continua.

21 Febbraio 2018

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Matteo Brunati*

Concentrandoci sulla realtà in cui ci muoviamo, come la descriveremmo? Quando nominiamo il “reale”, siamo sicuri che i nostri interlocutori ne abbiano una concezione simile alla nostra? Faccio un piccolo salto nel passato: gli Anni Novanta. Si usavano i termini “realtà virtuale” e “realtà analogica”, per tracciare dei confini tra due modi di interpretare il reale, modalità già allora in collisione. Oggi, nel 2018, entrambi questi termini si sono evoluti e, in larga parte, sono stati abbandonati. La realtà non è più né analogica né virtuale. Anche se aggiungessimo al “reale” la magica parola “digitale”, la situazione non sarebbe diversa: parlare dell’Agenda (digitale) del Paese significa parlare dell’Agenda reale, non dovrebbero essere elementi scollegati, così come parlare di realtà analogica o di realtà virtuale non fotografa davvero la situazione concreta in cui viviamo. In Italia, però, si continua a farlo: sia in pubblico, che in privato, fino, addirittura, nei media. Dovremmo lavorare tutti assieme per superare questa visione anacronistica, a partire dalla classe politica, assieme alle istituzioni e a tutta la Pubblica Amministrazione.

“Viviamo in una foresta di mangrovie”, un reale ibrido: la politica lo ha capito?

Luciano Floridi, professore ordinario di Filosofia ed Etica dell’informazione all’Università di Oxford, ha parlato di questi temi nel recente intervento tenuto alla Camera dei Deputati a metà gennaio [1]. Per lui è fondamentale parlare di Onlife, ossia di una realtà che non distingue più tra essere online e offline [2]. Per spiegare il concetto di Onlife, Floridi fa questo esempio: se ci trovassimo in una foresta di mangrovie, avrebbe senso chiedersi se l’acqua è salata o dolce? Se siamo convinti che questa domanda sia rilevante, non abbiamo compreso in quale luogo ci troviamo. Le mangrovie crescono in una situazione ibrida: l’acqua è allo stesso tempo sia dolce che salata. Questo significa essere nell’Onlife. Diciamolo con chiarezza: siamo in un reale ibrido, dove il digitale è solo una parte del tangibile. Questo è il punto di partenza da considerare per chiunque, specialmente per il governo che si insedierà dopo le elezioni. Siamo già nella foresta di mangrovie. E ci siamo da diverso tempo [3]. Se penso alla generazione nata dagli Anni Novanta in poi, non la credo in grado di immaginare, il reale senza il digitale, senza l’online. Che visione di futuro, in quale Agenda politica possono riconoscersi, se nessuna delle proposte ha una visione chiara del reale in cui siamo?

Ripartiamo dal concetto di cittadinanza attiva: civic hacking e attivismo civico

A questo punto, affrontiamo la questione chiave: quale significato dare al concetto di cittadinanza attiva nel Ventunesimo Secolo? Pensare alla cittadinanza attiva come portatrice di categorie collegate alla realtà del secolo scorso è miope e rischioso. Diventa rischioso perché aumenta il divario tra le parti. Gli strumenti a disposizione dei cittadini sono cambiati, le aspettative – e la stessa interpretazione di democrazia – sono differenti. Non possiamo dare per scontato che siano ancora quelle a cui siamo abituati, quindi vanno ridiscusse. Negli ultimi mesi, sto riflettendo molto sulla natura del cittadino attivo, anche per il lavoro sul libro dedicato al civic hacking in Italia [4]. Rispetto al concetto di cittadinanza attiva, il civic hacking è molto affine, e per certi versi complementare. Questo fenomeno, piuttosto diffuso nel mondo anglosassone, è presente anche in Italia, anche se a macchia di leopardo. Quello che manca è considerarlo un fenomeno legittimo, soprattutto da parte delle istituzioni. La faccio breve: il civic hacking è il cuore pulsante del cittadino attivo del Ventunesimo Secolo. È una forma di attivismo civico che sceglie di occuparsi di questioni di interesse pubblico. Il civic hacking è creativo: cerca allo stesso tempo di risolvere il problema, ricombinare le risorse e includere le persone che hanno a cuore il problema in oggetto. Nonostante questo, di civic hacking si parla troppo poco, è ancora semi-sconosciuto: la presenza di termini in inglese non aiuta, ancor meno quando si parla di hacker e di hacking. Chiarisco subito: l’hacking è un atteggiamento, non un insieme di capacità e non si riferisce soltanto alla tecnologia e all’informatica, anzi [5]. Citando Tanya Snook «la cultura della Silicon Valley […] crede che ‘le cose sono hackerabili — il modo in cui abbiamo costruito i vari sistemi non è pre-definito o immutabile. Possiamo armeggiare, costruirli di nuovo e giocarci’ […] i lavoratori della Silicon Valley ‘non chiedono il permesso per fare quello che fanno… Sono meno interessati alla tecnologia, rispetto a quanto siano interessati a trafficare con i modi consueti di fare le cose e con le convenzioni sui modi di pensare, creare, imparare ed essere». Questa attitudine hacker è solo uno degli aspetti del cittadino del nuovo secolo: dobbiamo prenderne atto.

Le persone e la loro visione del mondo: questo manca del tutto in questa campagna elettorale

Di questo spirito hacker parla anche Gianni Dominici nell’articolo “ Dall’open government all’open governance. È ora di fare sul serio ”, riflettendo sull’importanza di hackerare la società, la Pubblica Amministrazione prima, la burocrazia poi. Inoltre, Dominici ragiona su “come fare sistema tra le diverse energie vitali sparse sul territorio. Come, appunto, costruire una piattaforma sociotecnica aperta in grado di abilitare la collaborazione tra i soggetti locali e nazionali dell’innovazione tramite la quale obiettivi e risultati non vengono definiti dall’alto ma sono frutto della stessa interazione tra le parti”. Amplio questo spunto, interpretandolo non tanto dall’interno della Pubblica Amministrazione, quanto in un livello più orizzontale, di infrastruttura abilitante: il livello in cui tutti noi ci riconosciamo come cittadini. L’innovazione non è un obiettivo per il cittadino, al massimo è un mezzo, uno strumento. Da tecnico (di formazione sono un informatico) e appassionato di tecnologia, riconosco l’importanza di lanciare un monito: non facciamoci ingannare (di nuovo) dalla tecno-utopia, la tecnologia non ci salverà tutti. Non lo farà nemmeno l’innovazione. Dobbiamo scendere più in basso, alla natura stessa del ruolo del cittadino. Dobbiamo concentrarci sulle persone e sulla loro visione del mondo, su una costruzione di senso (e di futuro) che non vedo oggetto di questa campagna elettorale.

Un consiglio al nuovo governo: chiedersi qual è il ruolo del cittadino del Ventunesimo Secolo

Matteo Tempestini, uno dei civic hacker dietro TerremotoCentroItalia, in un tweet si chiede “un buon tema di cui parlare in campagna elettorale sarebbe quello di promuovere il #civichacking al posto dell’educazione civica, ad esempio”. Probabile. In ogni caso sarebbe utile ragionarci. Qualche segnale promettente esiste, ad esempio, penso alle diverse edizioni della scuola di tecnologie civiche. La Pubblica Amministrazione che si rinnova, che si hackera dall’interno, deve sempre relazionarsi con il cittadino e, probabilmente, i primi a farsi avanti saranno i civic hacker. Il consiglio che vorrei dare al nuovo governo è quello di porsi questa domanda: qual è il ruolo del cittadino del Ventunesimo Secolo?

A novembre 2009, Jennifer Pahlka lancia “Code for America” all’interno della conferenza “Web2.0 Expo” a New York: «Così come Teach for America nei primi Anni Novanta ha reso l’insegnamento più cool, migliorando il modo in cui veniva percepito, così vogliamo fare noi, prendendo in prestito lo stesso approccio. Code for America diventerà il Teach for America per il governo delle città». [6]

Ci sono due tasselli in queste parole: uno è il concetto di “give back” americano, l’idea è che se hai avuto successo, dovresti restituire qualcosa alla società. Diego Piacentini, l’attuale commissario del Team per la Trasformazione Digitale, lo spiega molto bene in un’intervista «nei miei sedici anni negli Stati Uniti sono stato contagiato da un’idea forte, quella di restituire al proprio Paese, alla propria scuola, alla propria università. È il concetto del Give back”, dichiara Piacentini. Restituire è quasi un obbligo morale, se hai avuto successo, poi sei chiamato a dare indietro qualcosa a chi ti ha formato». L’altro è l’ispirazione che Code for America ha tratto dal modello di Teach for America, una delle tante organizzazioni no-profit sotto il cappello di AmeriCorps. AmeriCorps è un programma gestito dalla Corporation for National and Community Service (CNCS), un’agenzia federale che garantisce la sussistenza agli americani che decidono di fare un servizio civile per un anno. Parte del ruolo del cittadino attivo potrebbe nascere dal Servizio Civile. Potremmo ripensarlo in un’ottica di Onlife e di Ventunesimo Secolo. Ricordando, comunque, che sarebbe solo un piccolo tassello.


*Matteo Brunati è un civic hacker appassionato di Open Government. Supporter delle Creative Commons, fellow della Free Software Foundation e socio di IWA Italy, è tra i fondatori della comunità di Spaghetti Open Data. Assieme a Erika Marconato, sta scrivendo un libro (e curando una newsletter) sul civic hacking in Italia (civichacking.it). Ha partecipato al Forum OGP come rappresentante della comunità di Spaghetti Open Data e segue da tempo i temi collegati agli Open Data (è stato per tre anni corrispondente per l’Italia del progetto ePSI Platform e reviewer della terza edizione dell’Open Data Barometer). Lavora come community manager a SpazioDati.


[1] – il video dell’intervento di Luciano Floridi all’evento Human Digital Transformation il 15 Gennaio 2018 alla Camera dei Deputati https://www.youtube.com/watch?v=G3WqDJ3EbMw – Il suo intervento inizia a partire dal minuto 1h42min

[2] – “Manca una seria cultura del digitale, cioè il know-how, ma anche un certo disincanto. Altri paesi sono più avanti di noi, il digitale rientra nell’ordinario, non fa notizia. Come se lo facesse possedere un’automobile. La maggior parte della popolazione è abituata a fare shopping e petizioni online. Vive onlife, una vita che non distingue più tra online o offline. In Italia non siamo al passo, ma sono certo che questa preparazione arriverà. La rivoluzione agricola ha impiegato millenni per essere assorbita, quella industriale secoli, il digitale anni. È inevitabile un minimo ritardo. Il vero divario non sta tra chi dispone delle tecnologie e chi no, ma tra chi ha una cultura del digitale e chi non l’ha. Serve un periodo d’adattamento e l’avremo, perché una nuova trasformazione, così radicale, non è imminente. Non succede spesso di scoprire un nuovo continente.” Fonte: http://www.treccani.it/magazine/atlante/scienze/Floridi_Benvenuti_nell_era_dell_onlife.html

[3] – Floridi ne parla in maniera approfondita per Formiche http://formiche.net/2016/11/generazione-di-zombie-parola-di-luciano-floridi/

[4] – il libro è in corso di scrittura assieme ad Erika Marconato: questo è il sito di riferimento per approfondire http://civichacking.it. Per chi vuole restare aggiornato sul civic hacking in Italia, c’è una newsletter settimanale: questo è l’archivio http://bit.ly/archivio-nl-civichackingit

[5] – Erika ha tradotto un bell’articolo di Tanya Snook che riflette sull’atteggiamento hacker https://medium.com/civichackingit/lhacking-%C3%A8-un-atteggiamento-non-un-insieme-di-capacit%C3%A0-perch%C3%A9-il-civic-hacking-%C3%A8-la-chiave-per-b409fc8c4cfd

[6] – Traduzione del sottoscritto, citazione tratta da https://civsourceonline.com/2009/11/24/new-organiz…

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