Lo smart working nella PA: un bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno?

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Nel 2018 solo il 9% delle pubbliche amministrazioni ha adottato lo smart working. Tuttavia l’entusiasmo e l’energia delle iniziative avviate dimostrano la possibilità di realizzare progettualità innovative. E’ ora necessario attuare un gioco di squadra tra le PA, puntare sulla formazione, misurare e dare visibilità ai risultati ottenuti e fare in modo che ciascuna PA sia stimolata a interpretare lo smart working come un’opportunità di trasformazione della cultura dell’ente e di innovazione del modello di servizio al cittadino

20 Febbraio 2019

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Paola Orecchia

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Mariano Corso

Responsabile Scientifico, Osservatorio Smart Working Politecnico di Milano

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Fiorella Crespi

Osservatori Digital Innovation Politecnico di Milano

Photo by Bonnie Kittle on Unsplash - https://unsplash.com/photos/GiIZSko7Guk

Lo smart working continua ad essere al centro dell’attenzione mediatica e oggetto di progettualità da parte delle organizzazioni sia pubbliche che private. A distanza di più di un anno dall’approvazione della legge sul lavoro agile e dalla pubblicazione della Direttiva della riforma Madia che richiede a tutti gli enti pubblici di dare la possibilità ad almeno il 10% dei dipendenti di fruire di forme flessibili di organizzazione del lavoro (tra cui lo smart working) è possibile fare un primo bilancio degli effetti ottenuti.

Se nelle grandi imprese la diffusione delle iniziative di smart working continua ad aumentare, diventando un requisito necessario a mantenere l’attrattività e competitività, dalla Ricerca dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano emerge invece che nel 2018, solo il 9% delle Pubbliche Amministrazioni (PA) ha adottato lo smart working, valore sostanzialmente invariato rispetto allo scorso anno e in cui si osserva un lieve aumento della quota di progetti strutturati, che passano dal 5% all’8%, con la conseguente riduzione dei progetti informali. Si tratta sia di iniziative già in essere nell’anno precedente sia di nuovi progetti che erano stati pianificati o che sono stati attivati ex novo nel 2018. Tra gli enti in cui non sono ancora presenti iniziative si distinguono un 8% che prevede di promuovere un’iniziativa di smart working entro i prossimi 12 mesi e un 36% che si dichiara possibilista in merito ad un’introduzione futura.

Questi risultati denotano che, nonostante lo sforzo normativo profuso e le scadenze imposte dalla direttiva Madia, non c’è stata nella PA quella crescita nella diffusione dello smart working che si sperava, dove invece rimane tutt’ora un fenomeno di nicchia per poche amministrazioni coraggiose. Nel dare una lettura complessiva dello smart working nel settore pubblico nel 2018, occorre però citare anche le numerose iniziative di sensibilizzazione e formazione delle PA fatte sul territorio, iniziative che hanno contribuito a fare cultura sul tema e a mettere a fattor comune esperienze e pratiche. Tali iniziative dovrebbero aver posto le basi per una crescita futura di progetti nel settore pubblico a patto che non si arresti la spinta al cambiamento da parte del Governo.

È possibile identificare alcuni elementi che possono avere limitato quel salto dimensionale in cui era lecito sperare alla luce dei principi e degli obblighi introdotti dalla riforma Madia. Una prima motivazione è che la norma introdotta, benché sufficientemente chiara dal punto di vista degli obblighi e delle scadenze, non prevedeva specifiche risorse e misure di accompagnamento a disposizione (le poche presenti sono state attivate con grave ritardo rispetto alle scadenze), né tantomeno sanzioni in caso di mancato rispetto dei termini. Inoltre, il cambio di legislatura e il fatto che il nuovo governo non si sia pronunciato relativamente all’importanza di sostenere gli obiettivi della riforma hanno senz’altro depotenziato la norma e dato spazio alle, purtroppo ataviche, resistenze e inerzie al cambiamento organizzativo da parte delle PA del nostro Paese. Una seconda motivazione, ancora più profonda, risiede nel fatto che l’innovazione organizzativa non può essere imposta per decreto come purtroppo nel settore pubblico si tende a pensare: le difficoltà incontrate mettono in evidenza come, per rendere possibile un vero passaggio allo smart working nella PA, occorra cambiare prospettiva e non vedere e presentare questa iniziativa solo come un mero adempimento normativo, ma come un cambiamento culturale che deve passare da un coinvolgimento dei lavoratori e, soprattutto, da un’adesione vera ai nuovi principi organizzativi da parte del management della PA. Questo perché una visione ‘burocratica’, oltre a contrastare con lo spirito stesso dello smart working, limita molto la portata dei progetti portando gli enti pubblici meno convinti a fare il minimo indispensabile e non consentendo all’organizzazione di cogliere le reali opportunità che il cambiamento permetterebbe di ottenere. Per fare questo, occorre che ciascuna PA sia stimolata ad interpretare lo smart working in base alle proprie caratteristiche, come un’opportunità di trasformazione della cultura dell’ente e di innovazione del modello di servizio al cittadino, facendo tesoro di altre esperienze già presenti nel comparto pubblico.

L’entusiasmo e l’energia delle, seppur poche, iniziative già avviate dimostrano comunque la possibilità di realizzare progettualità innovative anche in un settore complesso come quello pubblico. Si può citare per esempio il caso della Provincia Autonoma di Trento che, oltre all’adozione del lavoro da remoto ha realizzato anche un modello di coworking diffuso tra le varie sedi per facilitare gli spostamenti delle persone. L’iniziativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri prevede invece che la candidatura allo smart working debba essere accompagnata da un proprio progetto individuale con indicazione dei risultati attesi in ottica di miglioramento dei processi e delle produttività. Il Comune di Torino ha poi utilizzato lo smart working per provare a ripensare alcuni servizi al cittadino come nel caso del progetto Edilizia Agile, attraverso il quale si sono introdotte sperimentazioni di sportelli virtuali per la gestione delle pratiche edilizie con un miglioramento della soddisfazione sull’utilizzo del servizio da parte dei professionisti. E, infine, il Comune di Genova che si è fatto promotore della realizzazione di una rete di organizzazioni pubbliche e private per lo scambio di buone pratiche di smart working e, allo stesso tempo, ha accelerato l’adozione di questa modalità per i propri dipendenti per rispondere anche alle emergenze di viabilità causate dal crollo del ponte Morandi (NdR: guarda l’intervista ad Arianna Viscogliosi, Assessora al Personale e Pari opportunità del Comune di Genova).

Questi esempi possono quindi compensare la delusione per numeri ancora non esaltanti per quanto riguarda la diffusione dello smart working nella PA e le esperienze di questa prima fase di lancio possono suggerire alcuni fattori critici di successo per consentire una più rapida diffusione dei progetti. Prima di tutto è necessario attuare un gioco di squadra tra le PA creando meccanismi di condivisione di buone pratiche attraverso la modalità del riuso. In questa direzione va per esempio il progetto “VeLA: Veloce, Leggero, Agile” promosso dalla Regione Emilia-Romagna (NdR: il progetto VeLA registra la collaborazione tra importanti enti locali italiani e il coinvolgimento di FPA a supporto della comunicazione di progetto). È importante poi puntare sulla formazione delle nuove competenze digitali delle persone e sulla diffusione di una cultura results driven che consenta di non limitare gli effetti dello smart working al solo ambito della conciliazione. Infine, sarà fondamentale misurare e dare visibilità ai risultati ottenuti per scongiurare pregiudizi e limitare le resistenze alla diffusione dello smart working nella PA.

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