Smart working: dati e strumenti per progettare il lavoro nel “new normal”

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Ce lo dicono i dati e ce lo conferma l’opinione di dipendenti pubblici e cittadini: lo smart working è ormai, anche nel mondo pubblico, una strada avviata e che non potrà essere abbandonata una volta finita l’emergenza. Certamente dovrà maturare ed entrare a regime, ma i segnali ci sono. A partire dall’introduzione dei POLA (Piani Organizzativi del Lavoro Agile) e dell’Osservatorio nazionale che dovrà tra l’altro monitorare proprio questi documenti di programmazione

19 Novembre 2020

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Michela Stentella

Content Manager FPA

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Ce lo dicono i dati e ce lo conferma l’opinione di dipendenti pubblici e cittadini: lo smart working è ormai, anche nel mondo pubblico, una strada avviata e che non potrà essere abbandonata una volta finita l’emergenza. Certamente dovrà maturare ed entrare a regime, perché è vero che, come più volte sottolineato in questi mesi, la pandemia ha portato ad adottare forme di lavoro a distanza che ben poco hanno a che fare con il vero smart working. Si tratta, invece, di una vera e propria “rivoluzione” che va “accompagnata, sostenuta e monitorata con attenzione” come ha sottolineato la Ministra Fabiana Dadone in occasione della firma del decreto che ha istituito l’Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche, come previsto dal decreto Rilancio.

Il POLA e l’Osservatorio nazionale del Lavoro agile

Come abbiamo raccontato la scorsa settimana in questo articolo, c’è un altro strumento previsto dal Decreto Rilancio, che potrebbe rivelarsi un’occasione storica e imperdibile per rivedere l’organizzazione del lavoro in ottica di obiettivi misurabili internamente ed esternamente all’Ente. Stiamo parlando del POLA, il Piano Organizzativo del Lavoro Agile che entro il 31 gennaio di ciascun anno (a partire dal gennaio 2021) le amministrazioni pubbliche dovranno redigere, sentite le organizzazioni sindacali. Il POLA individua le modalità attuative del lavoro agile prevedendo, per le attività che possono essere svolte in modalità agile, che almeno il 60% dei dipendenti possa avvalersene. Il documento sarà soggetto al monitoraggio proprio da parte dell’Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche. L’Osservatorio sarà composto da 27 rappresentanti di Governo, Regioni, enti locali, Inps, Istat e altre istituzioni, tra cui un membro per conto dell’Enea, in modo da poter approfondire con attenzione anche gli aspetti connessi alle tecnologie, all’energia e allo sviluppo sostenibile. Ad essi si aggiungeranno 14 esperti del settore pubblico e privato o provenienti dal mondo universitario, che andranno a costituire una Commissione tecnica di supporto. L’Osservatorio verificherà che i POLA messi a punto dagli enti raggiungano gli obiettivi quantitativi e qualitativi fissati, monitorerà gli effetti dello smart working sull’organizzazione e i benefici per i servizi ai cittadini, ma ne promuoverà anche la diffusione sul piano comunicativo e culturale. 

La Ministra Dadone ha inoltre annunciato pochi giorni fa che nella nota di aggiornamento al documento di economia e finanza ci sarà un disegno di legge con nuove disposizioni sul lavoro agile e che arriverà presto un decreto ministeriale che conterrà gli “indicatori di performance», per fornire alle amministrazioni pubbliche «prime indicazioni metodologiche per l’organizzazione del lavoro agile a regime”. Insomma, un lavoro che va avanti per programmare il post-emergenza, per guardare al futuro fin da ora, nonostante la crisi ancora in corso, come la Ministra Dadone ha evidenziato anche nel suo intervento al “FORUM PA 2020 Restart Italia”, il 2 novembre scorso.

I numeri dello smart working nella PA

Intanto, dicevamo, ci sono i numeri che parlano di questa vera e propria rivoluzione. L’ultima Ricerca dell’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano, presentata il 3 novembre scorso, ci dice che durante il lockdown, il 94% delle amministrazioni pubbliche ha esteso la possibilità di lavorare da remoto. In media ha potuto lavorare da remoto il 58% del personale, pari a 1,85 milioni di dipendenti pubblici su poco più di tre milioni. Le PA che avevano già progetti in corso hanno potuto coinvolgere un numero maggiore di persone (70%) rispetto alle amministrazioni che hanno dovuto cominciare da zero (55%). Un dato che conferma quanto emerso da tante interviste e confronti che abbiamo realizzato in questi mesi con amministratori e innovatori attivi sui territori: la preparazione ha pagato e chi già stava lavorando e sperimentando ha saputo reagire meglio e più prontamente all’emergenza. Questo vale per il tema dello smart working come per altri aspetti, primo fra tutti la disponibilità e la qualità dei servizi digitali già presenti prima della pandemia.

A settembre 2020, poi, tra rientri consigliati e obbligatori, difficoltà e incertezze nell’apertura delle sedi di lavoro, gli smart worker (che hanno lavorato anche da remoto) erano 1,32 milioni nella PA. Ora, naturalmente, siamo di nuovo in una fase di grave crisi, ma in prospettiva, nel cosiddetto “New Normal”, si stima che i lavoratori pubblici che lavoreranno almeno in parte da remoto saranno 1,48 milioni. Nelle PA saranno introdotti progetti di smart working (48%), aumenteranno le persone coinvolte nei progetti (72%) e si lavorerà da remoto in media 1,4 giorni alla settimana (47%), rispetto alla giornata media attuale.

Tra le difficoltà evidenziate dalla ricerca relative a questo periodo di smart working in emergenza, certamente quelle legate alla preparazione tecnologica: più di quattro amministrazioni pubbliche su dieci hanno dovuto incrementare gli strumenti hardware a disposizione del personale (42%), quasi la metà è intervenuta sui software (49%), soprattutto applicazioni per le videoconferenze (60%), sistemi per l’accesso ai dati da remoto in sicurezza (come le VPN, 46%) e i pc portatili (29%). Tre quarti delle amministrazioni hanno incoraggiato i dipendenti a usare i dispositivi personali, a causa delle limitazioni di spesa e dell’arretratezza tecnologia. Il 43% di queste non ha integrato la dotazione personale dei dipendenti, che hanno dovuto attrezzarsi con proprie risorse, e solo il 38% si è attivata per garantire l’accesso sicuro ai dati da remoto.

Nelle PA, le difficoltà maggiori hanno riguardato proprio l’inadeguatezza delle tecnologie a disposizione (46%) e la disparità nel carico di lavoro (39%), poi l’equilibrio fra vita privata e professionale (33%) e le scarse competenze digitali (31%). Tuttavia vengono evidenziati anche molti aspetti positivi: l’opportunità di sperimentare nuovi strumenti digitali (56%), il miglioramento delle competenze digitali dei lavoratori (53%), il ripensamento dei processi aziendali (42%).

Il South Working: i dati sugli smart worker rientrati nelle Regioni del Sud

Ma ci sono anche altri dati molto interessanti pubblicati proprio in questi giorni. Si tratta dei numeri relativi ai lavoratori che, nel periodo della pandemia, sono rientrati nella propria regione di origine, nel Mezzogiorno, proprio grazie alla possibilità di lavorare in smart working. Si parla di 45mila addetti che lavorano in smart working dal Sud per le grandi imprese del centro-nord. I numeri emergono da un’indagine realizzata da Datamining per conto della Svimez su 150 grandi imprese, con oltre 250 addetti, che operano nelle diverse aree del Centro Nord nei settori manifatturiero e dei servizi. Se poi si prendono in considerazione anche le PMI, si stima che il fenomeno potrebbe aver riguardato circa 100 mila lavoratori meridionali. I dati rientrano nel Rapporto Svimez 2020, che sarà presentato il prossimo martedì 24 novembre, e questa parte della ricerca è stata realizzata in collaborazione con l’associazione “South Working Lavorare dal Sud”. È stato coinvolto un campione di 2mila lavoratori (circa l’80% ha tra i 25 e i 40 anni, possiede elevati titoli di studio, principalmente in Ingegneria, Economia e Giurisprudenza, e ha nel 63% dei casi, un contratto di lavoro a tempo indeterminato) e l’85% degli intervistati andrebbe o tornerebbe a vivere al Sud se fosse loro consentito, e se fosse possibile mantenere il lavoro da remoto.

I dati in questo caso riguardano dipendenti del settore privato, ma investono temi centrali per la ripartenza del Paese nel post-emergenza: la nuova geografica dei territori, un nuovo approccio allo sviluppo e all’economia improntato su digitalizzazione e sostenibilità. E ovviamente lo sviluppo del Mezzogiorno, come anche di altre aree a scarsa competitività, quali le aree interne.

“Il southworking – ha commentato Luca Bianchi Direttore SVIMEZ – potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per interrompere i processi di deaccumulazione di capitale umano qualificato iniziati da un ventennio (circa un milione di giovani ha lasciato il Mezzogiorno senza tornarci) e che stanno irreversibilmente compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese. Per realizzare questa nuova opportunità è tuttavia indispensabile costruire intorno ad essa una politica di attrazione di competenze con un pacchetto di interventi concentrato su quattro cluster: incentivi di tipo fiscale e contributivo; creazione di spazi di co-working; investimenti sull’offerta di servizi alle famiglie (asili nido, tempo pieno, servizi sanitari); infrastrutture digitali diffuse in grado di colmare il gap Nord/Sud e tra aree urbane e periferiche”.

L’opinione di dipendenti pubblici e cittadini

Insomma, lo smart working, come ormai appare evidente, chiama in causa temi molto ampi: competenze, riorganizzazione e revisione dei processi interni, trasformazione digitale, rivoluzione culturale, sostenibilità, sviluppo economico. Tutti punti che saranno sempre più centrali a partire dai prossimi mesi e anni, come sembra evidente anche dall’opinione di dipendenti pubblici e cittadini.

FPA ha presentato nel luglio scorso la ricerca “Strategie individuali e organizzative di risposta all’emergenza”, che ha visto la partecipazione di 5.225 persone di cui 4.200 dipendenti pubblici. Il 92,3% dei dipendenti pubblici oggetto dell’indagine stava lavorando in smart working e l’88% dei dipendenti giudicava l’esperienza di successo. Il 61,1% riteneva che questa nuova cultura, basata sulla flessibilità e sulla cooperazione all’interno degli enti, fra gli enti e nei rapporti con i cittadini e le imprese, prevarrà anche una volta finita la fase di emergenza e il 93,6% dichiarava di voler continuare a lavorare in smart working, anche se per la maggior parte (il 66%) il lavoro da casa deve essere integrato con dei rientri in ufficio organizzati e funzionali.

A novembre poi siamo tornati sul tema all’interno della ricerca La PA oltre il Covid realizzata in occasione di “FORUM PA 2020 Restart Italia”. La ricerca è stata realizzata attraverso un’indagine demoscopica condotta in collaborazione con l’Istituto Piepoli su un campione di 1000 persone rappresentativo della popolazione italiana e una seconda indagine su oltre 2000 persone che compongono il PanelPA della community di FPA. Il tema smart working era presente in entrambe le indagini che compongono la ricerca. Dalla demoscopica emerge che, secondo la maggioranza degli italiani (il 53%), lo smart working è un’opportunità per un’amministrazione più efficiente e moderna, quota ben superiore al 29% che lo considera un rischio per l’assenteismo e comportamenti opportunistici (il 13% lo ritiene ininfluente). Dal Panel PA emrege una visione dello smart working positiva, anche se i dipendenti pubblici non vedono ancora un nuovo orientamento ai risultati. Per il 42,8% la pratica della valutazione non è cambiata, per il 44,6% non ci sono ancora cambiamenti in questo senso ma segnali di miglioramento, solo il 12,6% vede un reale cambiamento. Con il lavoro a distanza si avverte maggiormente la necessità di una condivisione costante ed efficace di obiettivi e strategie, ma per la maggioranza non è migliorata la comunicazione interna ma ci sono segnali di cambiamento (40,6%) o non c’è miglioramento ed appare insufficiente (il 36,1%). Se a giugno 2020, oltre il 60% dei rispondenti esprimeva fiducia che lo smart working avrebbe portato un cambiamento positivo nella PA, ora, a qualche mese di distanza, la fiducia resta alta: il 55,1% dei lavoratori è ottimista che questo possa avvenire, ma pensa ci vorrà più tempo.

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