Tra il dire e il fare: le sfide dell’amministrazione condivisa

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L’amministrazione condivisa è oggi diffusamente praticata dagli enti locali, soprattutto in ambito welfare. E la pratica pone interrogativi con i quali è necessario fare i conti per realizzare coprogrammazioni e coprogettazioni di qualità

24 Aprile 2024

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Gianfranco Marocchi

Vicedirettore di Welforum.it e co-direttore della rivista Impresa Sociale

Foto di Chang Duong su Unsplash - https://unsplash.com/it/foto/foto-della-silhouette-di-sei-persone-sulla-cima-della-montagna-Sj0iMtq_Z4w

Le esperienze di coprogrammazione e, soprattutto, di coprogettazione si sono moltiplicate; secondo i ricercatori, sono oggi diverse centinaia ogni anno, diffuse in tutto il paese e in contesti diversi, da quelli metropolitani alle aree interne. L’amministrazione condivisa non è quindi più un mero auspicio degli studiosi, ma una realtà concreta; e come tale mostra al tempo stesso aspetti positivi e criticità. Né poteva essere diversamente, se si pensa che l’amministrazione condivisa non rappresenta una mera innovazione tecnica rispetto agli strumenti amministrativi, ma un cambio culturale di grande portata, che ci porta da un panorama monopolizzato dall’assolutizzazione del principio di concorrenza ad un altro in cui il benessere dei cittadini e delle comunità è perseguito attraverso l’alleanza tra soggetti, pubblici e di terzo settore, accomunati dalla medesima vocazione ad operare per l’interesse generale.

La radicalità di questo cambiamento non può non portare con sé le tensioni e le dialettiche che ogni giorno sono vissute da chi pratica l’amministrazione condivisa: da una parte la consapevolezza che i cambiamenti sociali non possono che essere sistemici – se si intende trasformare un quartiere disagiato, dovremo coinvolgere una lunga serie di attori che lo abitano e non certo affidarci ad una mera azione dell’ente locale – e che quindi Enti pubblici e Terzo settore sono, come ben evidenziato dalla Sentenza 131/2020 della Corte costituzionale, alleati naturali nel realizzarli; dall’altra le resistenze diffuse nello staccarsi da una cultura ideologicamente orientata a ritenere invece Enti pubblici e Terzo settore come parti contrattuali controinteressate e gli Enti di Terzo settore come soggetti tra loro in competizione.

Non vi è da stupirsi che da questa tensione possano talvolta nascere ibridi poco soddisfacenti: coprogettazioni che sembrano appalti, in cui le cose da fare sono definite a priori nell’avviso e non sono oggetto del lavoro comune dei tavoli; tavoli di lavoro conflittuali o spartitori; condizioni economiche insostenibili per un malinteso utilizzo del cosiddetto “cofinanziamento”, così simile in certi casi ad un ribasso d’asta obbligatorio; coprogettazioni fortemente selettive, in cui uno “vince” e tutti gli altri perdono. L’elenco potrebbe continuare; a questo si aggiungono periodici fraintendimenti da parte della giustizia amministrativa e indicazioni – ad esempio in tema di rendicontazione – confuse e generalmente pensate per limitare o rendere macchinosi i procedimenti invece che per liberare energie costruttive.

Senza pensare che in poche righe si possano affrontare in modo compiuto questioni così articolate, è quindi utile provare a tracciare alcune piste di lavoro, alcune indicazioni che, si spera, possano essere utili a chi si propone di praticare in modo autentico l’amministrazione condivisa.

La prima è guardare al processo collaborativo nel suo complesso. Il procedimento amministrativo è compreso nei due – tre mesi che vanno dall’indizione dell’avviso pubblico alla formulazione del progetto definitivo e poi alla stipula di una convenzione. Ma la collaborazione ha un prima (tutto ciò che definisce i rapporti e il capitale fiduciario tra i diversi soggetti coinvolti, costruito nel corso del tempo) e un dopo, gli anni di realizzazione di quanto coprogettato; le esperienze ci dicono che i progetti più interessanti emergono nel medio periodo, che un qualcosa di realmente innovativo difficilmente viene concepito nelle settimane del procedimento e più spesso prende forma nel corso del lavoro comune, almeno nella misura in cui ci si accordano reciprocamente spazi per ragionare su quanto si sta facendo, via via facendolo evolvere.

E di qui la seconda indicazione. Non ha senso fare coprogettazioni di un anno o poco più. Il tempo di lavoro deve credibilmente corrispondere a quello necessario per realizzare il cambiamento. E quindi diamoci tempi lunghi, 3, 5 o più anni, soprattutto perché – e qui vi è la terza indicazione – l’amministrazione condivisa dà il meglio quando si affrontano insieme questioni ampie, dove la sintesi tra sensibilità diverse rappresenta un valore aggiunto; in altre parole, per fare un esempio di stagione, evitiamo coprogettazioni sui centri estivi, ma facciamole sulla riorganizzazione del sistema degli interventi per i minori (comprese le attività estive).

Quarta indicazione. I procedimenti vanno pensati, richiedono scelte non scontate, anzi talvolta controintuitive. Meglio perdere una mattina a interrogarsi sulle opzioni a disposizioni – ad esempio: quale livello di selettività per individuare i partecipanti al tavolo, valutando quali aspetti, ecc. – che trovarsi dopo, durante il procedimento, a fronteggiare effetti indesiderati. Non si tratta solamente di evitare opzioni illegali, ma più spesso di scegliere tra opzioni ugualmente legittime quelle che meglio si adattano al procedimento.

Quinta indicazione. Coerenza. Scegliere la strada della collaborazione funziona poco se è occasionale. Come si può pensare che i partecipanti ad un tavolo lì condividano le proprie idee migliori, mettano in comune delle funzioni rilevanti se il giorno dopo si ritroveranno competitor in una gara? O, ancor peggio, avversari in un tribunale come controinteressati in un ricorso? Collaborare non può che essere una scelta culturale e strategica, tendenzialmente poco reversibile.

Continuiamo. La sesta indicazione è di non trascurare mai azioni ulteriori rispetto a quelle dirette ai destinatari: la formazione, supervisione, comunicazione, sviluppo, ricerca risorse, valutazione, ecc. Certo costano. Ma, prima di tutto, rendono: se la coprogettazione moltiplica le risorse pubbliche iniziali non è certo per il cofinanziamento (quand’è che aboliremo con decisione questa idea piuttosto insana?): le risorse – umane, economiche, ecc. – veramente aggiuntive sono quelle che si trovano insieme. La valutazione (non quella d’impatto, altra idea originale quando applicata ad una coprogettazione in corso, ma una valutazione tesa al miglioramento combinando dati e confronto con gli stakeholder) ci permette di migliorare il progetto nel corso del tempo. La condivisione di funzioni come la formazione o la comunicazione è centrale per rendere omogeneo e coeso il tavolo nel corso del tempo. Lo “sviluppo” significa andare a cercare buone prassi per l’Italia e per l’Europa e riprodurle. Una coprogettazione è pensante, o non è.

Per concludere, una sfida. La coprogettazione del welfare consolidato. Perché se la collaborazione è confinata in interventi creativi, innovativi, un po’ sfiziosi, ma piccoli e occasionali, sarà sempre residuale. Certo, coprogettare (in modo autentico) il welfare consolidato è una vera sfida. Significa entrare nell’ordine di idee che, definiti obiettivi e vincoli, il sistema di interventi attuale possa essere ripensato e riorganizzato, modificando prassi date per scontate tanto nell’azione del Terzo settore che della pubblica amministrazione. Ma il vero cambiamento passa di lì.

ndr. Gianfranco Marocchi sarà presente a FORUM PA 2024 come relatore dell’Academy “Coprogrammare e coprogettare: come farlo al meglio? L’Amministrazione condivisa attraverso il racconto di due esperienze di coprogrammazione“.

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