Partecipazione e collaborazione civica: le città in prima fila

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In Italia sono tante le esperienze di città che stanno cercando di fare della partecipazione un metodo e non un’occasione episodica di ascolto. La sensazione, in generale, è che i progetti e le sperimentazioni a livello locale siano sempre un passo più avanti di quanto previsto da norme e regolamenti nazionali. Conoscerle è il primo passo per avanzare sulla strada della collaborazione civica.

21 Giugno 2017

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Michela Stentella

In Italia l’innovazione parte quasi sempre dai territori, come ci siamo trovati più volte a sottolineare in questi anni. Non fa eccezione il tema della partecipazione: se a livello nazionale, infatti, si è tornati di recente a parlare di approccio partecipativo soprattutto in relazione all’articolo 22 del Nuovo Codice Appalti, che introduce il “dibattito pubblico” per le decisioni sulle grandi opere che impattano sui territori, a livello locale sono tante le esperienze che stanno già cercando di fare della partecipazione un metodo e non un’occasione episodica di ascolto. Per restare sul tema del dibattito pubblico, la pioniera italiana è stata ad esempio la Regione Toscana con la legge n. 46/2013 che ha disciplinato in 32 articoli i temi del dibattito pubblico regionale e promozione della partecipazione all’elaborazione delle politiche regionali e locali. [1]


La sensazione in generale è che i progetti e le sperimentazioni a livello locale siano sempre un passo più avanti di quanto previsto da norme e regolamenti nazionali, il che potrebbe essere un bene e un male allo stesso tempo. Da una parte, infatti, si tratta di esperienze che possono funzionare da stimolo e modello per altre amministrazioni, dall’altra su alcuni temi sarebbe necessario avere degli standard comuni e condivisi, invece in Italia “i diritti non viaggiano insieme alle valigie e ai cambi di residenza” come ha sottolineato Lorenzo Lipparini, Assessore alla Partecipazione, cittadinanza attiva e open data del Comune di Milano, nel suo intervento al convegno “PArtecipazione: modelli, politiche e interventi nelle città italiane” a FORUM PA 2017 (di cui sono disponibili le presentazioni e la registrazione audio e di cui abbiamo pubblicato un report qui). In quell’occasione, dal nuovo progetto Partecip@ttivi (promosso dall’Assessorato alla Partecipazione del Comune di Palermo e realizzato da FPA in collaborazione con Next, Clac, Lattanzio Communication e Centro Studi Opera Don Calabria del Comune di Palermo) e dalle esperienze di città come Reggio Emilia e Milano, sono emersi numerosi spunti di riflessione.


Prima di tutto la considerazione (meno scontata di quello che sembra) per cui la partecipazione non è più un optional ma è una scelta quasi obbligata e costituisce un elemento trasversale a tutte le politiche pubbliche. Molte città lo hanno capito e stanno sviluppando processi che vedono nella partecipazione non una scelta occasionale, fatta in situazioni di crisi per dirimere conflitti, ma un vero e proprio metodo, adottato perché apre nuove possibilità. Se, infatti, secondo la giurisprudenza classica la partecipazione è un elemento che aggrava il procedimento, oggi a fronte della crisi della politica e dei corpi intermedi e a fronte del cambiamento del ruolo degli amministratori locali (ai quali sono attribuite sempre nuove competenze) la sfida è quella di costruire processi di partecipazione strutturali, duraturi, che non si fermano se cambia la guida politica e che garantiscano un seguito reale alle istanze che arrivano dagli stakeholder coinvolti. Al contrario, elementi “spot” di partecipazione rischiano di essere controproducenti e non c’è errore più grande che chiamare a partecipare i cittadini senza poi trasformare quanto concordato in strumenti concreti.


Altra sollecitazione emersa: il passaggio dal concetto di partecipazione a quello di collaborazione civica, particolarmente evidente nell’esperienza del Comune di Reggio Emilia, raccontata da Valeria Montanari (Assessora Agenda digitale, cura dei quartieri, Innovazione tecnologica, Semplificazione amministrativa, Trasparenza e comunicazione, Processi partecipativi, Decentramento, Territorio). Con il progetto “Quartiere bene comune”, infatti, è stata attivata una logica circolare per cui amministratori e cittadini lavorano insieme non solo per individuare i problemi ma anche per trovare le soluzioni. È stata introdotta una nuova figura all’interno dell’amministrazione – l’Architetto di quartiere, un facilitatore che fa da terminale rispetto alla relazione con le comunità – ed è stato attivato un processo nuovo di ascolto del territorio fatto di focus group, laboratori di cittadinanza, e veri e propri accordi di cittadinanza da cui discendono progetti di comunità relativi alla cura della città (manutenzione, guasti, etc) e cura della comunità (consolidamento coesione sociale, per esempio doposcuola, cura del verde, o cose più particolari, come il wi-fi di comunità). Chi firma l’accordo si impegna in prima persona ed è un contributo biunivoco: l’amministrazione mette a disposizione gli architetti di quartiere e, dove possibile, la dotazione finanziaria, mentre cittadini, enti e associazioni mettono e disposizione il loro tempo o strutture.


E ancora: la partecipazione come strumento per affrontare sfide di tipo economico/sociale. Ecco quindi la costruzione di un’economia di comunità e di posti di lavoro attraverso un processo bottom up, che parte dal basso e vede coinvolti soggetti della cooperazione sociale, del terzo settore, insomma persone in grado di costruire un’idea di nuova economia cittadina.


Infine, la convivenza tra modelli di partecipazione più tradizionali e modelli più innovativi e sperimentali, basati sull’uso delle nuove tecnologie, come gli electronic town meeting citati da Giusto Catania, Assessore alla Partecipazione, Comunicazione, Decentramento, Servizi Demografici e Migrazione del Comune di Palermo. Su questo tema, in particolare, l’Assessore Lipparini sottolinea come statuti e regolamenti (dal livello nazionale a quello locale) già prevedono forme codificate di partecipazione dei cittadini, come le petizioni, le delibere di iniziativa popolare, i referendum cittadini. Si tratta di strumenti datati e spesso costosi, ma che hanno il vantaggio di essere conosciuti da tutti e di essere ancora strumenti di massa. La tecnologia potrebbe aiutare a superare sia l’antichità dello strumento che il problema dei costi, a patto di prevedere interventi educativi e di supporto che superino il digital divide, garantendo l’assistenza al voto per tutti quelli che sono esclusi dagli strumenti digitali.



[1] Sul tema del dibattito pubblico, è disponibile questo articolo di approfondimento e la registrazione video del convegno “Il Dibattito Pubblico: opportunità e responsabilità per le P.A.” a FORUM PA 2017

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