​La riforma Madia vista da quattro prospettive di analisi

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Non è più il tempo di fare le riforme a colpi di norme pensate e governate dal centro. E’ il tempo di darsi prospettive lunghe, di cercare intese forti sui principi fondativi del cambiamento, di condividere la visione di una PA nuova, capace, da un lato, di abilitare all’innovazione, dall’altro, di modificarsi e di apprendere

21 Dicembre 2016

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Valentina Piersanti*

Non è più il tempo di fare le riforme a colpi di norme pensate e governate dal centro. Non è più il tempo di illudersi che i testi di legge possano, in sé, generare trasformazioni sostanziali in contesti frammentati, resistenti, autoreferenziali e dominati da un clima di sfiducia. E’ invece il tempo di darsi prospettive lunghe, di cercare intese forti sui principi fondativi del cambiamento, di condividere la visione di una PA nuova, capace, da un lato, di abilitare all’innovazione, dall’altro, di modificarsi e di apprendere. E’ urgente agire senza la fretta dei “cambiamenti epocali”, assumendo su più livelli la responsabilità di un processo serio e programmato di sperimentazione, investimento, supporto e “capacitazione”.

Sono questi alcuni dei commenti alla ricerca “25 anni di riforme della PA: troppe norme, pochi traguardi”, emersi in occasione della presentazione dell’annual report di FPA lo scorso 19 dicembre.

Una ricerca quella di FPA che guarda ai processi di riforma della PA legati all’uscente Governo Renzi da quattro diverse prospettive di analisi: (1) un quarto di secolo alla ricerca del cambiamento mancato: uno sguardo alle riforme degli ultimi 25 anni per rintracciarne le criticità e uno al futuro per immaginare gli scenari se la riforma Madia entrasse a pieno regime, guardando alle concrete ricadute in termini di PIL e occupazione; (2) un anno di Riforma Madia, con la verifica dei progressi formali e fattuali della legge delega attraverso un racconto breve di cosa è successo, cosa deve ancora succedere e cosa non succederà; (3) l’indagine Panel PA, condotta su quasi 700 uomini e donne prevalentemente impiegati nel settore pubblico, per capire in che modo vivano le ricadute della Riforma; e infine (4) a che punto siamo con… guardiamo i numeri, una selezione di dati relativi alle azioni introdotte con alcuni dei decreti attuativi già entrati in vigore.

Vediamo cosa emerge partendo proprio dall’opinione del Panel di quasi 700 intervistati che FPA ha voluto sentire per capire in che modo, secondo la loro percezione, i decreti attuativi della Madia e l’impianto stesso della riforma potranno impattare sul futuro del Paese, della pubblica amministrazione o semplicemente nell’esercizio del proprio essere cittadini, lavoratori pubblici o imprese. Per 7 su 10 degli intervistati “NON si tratta di una riforma rivoluzionaria negli effetti”, di nuovo – come negli interventi riformatori dell’ultimo quarto di secolo, analizzati nella prima parte della ricerca – “tutto è affidato a leggi e provvedimenti, ma mancano indirizzi programmatici e atti di gestione”.

Nel rileggere il passato delle riforme è proprio questo aspetto quello che accomuna l’impostazione degli oltre 15 interventi legislativi che hanno preceduto l’attuale riforma Madia. Tutti hanno tentato il cambiamento introducendo importanti e condivisi principi di riferimento e possibili idee di rinnovamento e riorganizzazione della stanca e affaticata macchina amministrativa, ma tutti hanno ripercorso la stessa strada: definizione della norma; basso o nullo grado d’implementazione; effetti in contradditori rispetto ai principi alla base dell’intervento riformatore; burocrazia difensiva; perdita di consenso; nuovo governo; nuova norma.

Il bilancio del percorso di attuazione delle deleghe previste dalla attuale legge di riforma ad un anno e mezzo dalla sua approvazione è il seguente: 16 i decreti attuativi approvati in via definitiva, di questi, 2 (dirigenza e servizi pubblici) sono decaduti e altri 3 (partecipate, direttori sanitari e “furbetti del cartellino”) sono in attesa di correttivi, 5 prorogati a febbraio insieme al testo unico del pubblico impiego.

Ma al di là dei traguardi “formali” alcuni miglioramenti, sostiene il Panel, sono già evidenti sul fronte dell’accesso ai dati e ai documenti della PA (32,7% del panel dichiara di vedere un miglioramento), nella qualità e nell’accesso ai servizi on line (30,6%) e nella tutela dei diritti digitali di cittadini e imprese (19,2%). E ancora si avverte una riduzione nella “incertezza di regole e tempi” (35,1%).

Sostanzialmente lì dove i decreti sono andati ad inserirsi in percorsi già avviati da tempo, abilitando dei passaggi di cambiamento, razionalizzando, snellendo, e semplificando alcuni meccanismi procedurali, dei miglioramenti iniziano ad essere visibili. Pensiamo a SPID, FOIA, banda larga, la riorganizzazione delle CCIAA o anche le novità che riguardano i procedimenti autorizzativi e i rapporti tra le PA. Temi cardine che hanno visto l’interlocuzione di diversi attori e che, per quanto ancora molto lontani dai traguardi previsti, qualcosa stanno muovendo.

Che le riforme siano più necessarie che mai, dimostra l’indagine, è un dato di fatto. La curva del PIL pro capite disegna oggi lo skyline di un paese che non ce la fa. Nel quale il persistere di una situazione di ristagno dell’economia – unitamente al divenire più fragili di alcuni degli asset culturali e sociali – sta deteriorando molti ambiti del benessere: l’istruzione e le competenze, l’occupazione, il reddito, l’abitazione, ecc. A ciò si aggiungano le valutazioni dell’Ocse, con il suo “Better life index” relega l’Italia tra gli ultimi otto paesi per occupazione, ambiente, istruzione, sicurezza e soddisfazione.

Cosa succederebbe invece se – pur nei suoi limiti, nella sua perfettibilità – l’attuale piano di riforme fosse portato a compimento? Ancora una volta sono i dati OCSE a parlare: un impatto sulla crescita della produttività e del PIL dello 0,6% tra 5 anni, pari a circa 9 miliardi di prodotto interno lordo in più. Una condizione che porterebbe nel giro di 5 anni l’Italia ai livelli pre-crisi: un cambiamento che però potrebbe essere rigettato e un consenso che potrebbe essere perduto se in questo “tempo di mezzo” la spinta riformatrice sarà accompagnata da un periodo nel quale invece che investire saremo obbligati a operare severe riduzioni del deficit. In quel caso la percezione dei costi sociali delle riforme sarà destinato a crescere e spingerà verso un rigetto sociale che riduce l’efficacia delle riforme e la perdita di consenso del governo; strada quest’ultima che conduce dritto verso un’equazione già troppe volte percorso dal Paese: nuovo governo = nuove riforme.

*Autrice della ricerca

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