EDITORIALE

Una PA per la costruzione di valore pubblico

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L’anno appena trascorso è stato caratterizzato da grandi cambiamenti in termini di assetti politici ma, per ora, da una politica di innovazione in cui manca ancora un progetto unico e condiviso. In occasione della pubblicazione dell’Annual Report 2018 di FPA, una riflessione a tutto tondo con lo sguardo rivolto al futuro, partendo da una convinzione: le PA di cui abbiamo bisogno ai livelli nazionale e locale devono essere soggetti attivi e proattivi di una visione di sviluppo da condividere con i diversi attori dell’innovazione.

30 Gennaio 2019

Gianni Dominici

Amministratore Delegato FPA

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Nello scrivere queste note, lo scorso anno, mettemmo in guardia su come il 2018 rischiasse di essere caratterizzato da una paralisi dei processi di innovazione del nostro Paese. Avevamo, infatti, paventato l’anno zero dell’innovazione come conseguenza del periodo di incertezza, politica e istituzionale, che ci trovavamo ad affrontare.

Non è stato cosi, non siamo arrivati all’anno zero dell’innovazione, tuttavia non siamo neanche partiti verso traguardi ambiziosi. L’anno appena trascorso è stato caratterizzato da grandi cambiamenti in termini di assetti politici ma, per ora, da una politica di innovazione che va avanti un po’ per inerzia, in cui manca ancora un progetto unico e condiviso.

La realtà, e l’anno appena passato lo ha dimostrato, è ancora fatta di chiaroscuri, di crescita frammentata. In questo contesto, come può lo Stato promuovere e sostenere l’innovazione nel Paese e farne leva dello sviluppo, se non è in grado di essere lui stesso innovativo sostenendo i processi interni di cambiamento?

La parte governo pubblico è quella che più denota la caratteristica di anno di passaggio. Da una parte, infatti, non sono ancora evidenti e visibili gli effetti della Riforma Madia, dall’altra le misure introdotte dal Ministro Bongiorno con il decreto “concretezza” sono ancora in fase di avvio per cui il 2018 si configura, su questo tema, inevitabilmente come un anno di transito. Tra i cambiamenti introdotti dalla Riforma e quelli avviati dal Decreto i prossimi mesi possono davvero caratterizzarsi per un cambio di passo del percorso di innovazione del corpaccione pubblico: l’istituzione del Nucleo concretezza, le nuove disposizioni in materia di assenteismo, lo sblocco del turnover, le scelte di indirizzo a valle del rinnovo contrattuale che c’è stato negli scorsi mesi. Azioni indispensabili se vogliamo rinnovare una struttura istituzionale che continua a invecchiare e che rischia di essere sempre più inadeguata a gestire il futuro. In questo contesto, sono da seguire con attenzione quei processi di innovazione organizzativa che, pur procedendo con eccessiva lentezza, possono rappresentare le condizioni per la diffusione di una nuova cultura nella e della PA. Tra questi, sicuramente da considerare il tema del lavoro agile o dello smart working . Come i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano dimostrano, nel 2018 non c’è stato un incremento nel numero di amministrazioni che hanno avviato progetti (ancora pari a circa il 9% del totale), ma è stato sicuramente possibile registrare una crescita in termini di sensibilizzazione e di condivisione di esperienze e pratiche. Sicuramente da citare, a questo proposito, il progetto VeLA (Veloce, Leggero, Agile) che registra la collaborazione tra importanti enti locali italiani e il coinvolgimento della stessa FPA a supporto della comunicazione di progetto. La diffusione della sperimentazione sul lavoro agile rappresenta non soltanto un importante laboratorio di innovazione organizzativa, ma l’occasione di una nuova prospettiva culturale che pone al centro non i vincoli giuridici e di bilancio ma le persone, in un contesto in cui le pubbliche amministrazioni, salvo rare occasioni, sono dei pessimi datori di lavoro.

Per poter fare leva sul capitale umano interno alla pubblica amministrazione è indispensabile, però, mettere in campo urgentemente azioni di valorizzazione delle risorse interne a cominciare dalla formazione. La macchina, infatti, è quella che ben conosciamo: l’età media dei dipendenti è di 50 anni e cresce con una media di 6 mesi l’anno. Il 62% dei dipendenti pubblici ha al massimo un diploma di licenza media superiore, il 4% ha una laurea breve e poco più di 1/3 (34%) ha la laurea o titoli superiori. Nel 2008 la media di giornate di formazione per ciascun dipendente era di 1,4, nel 2016 siamo scesi a 0,9. A fronte di questo, c’è un evidente ricorso al fai da te, all’autoformazione: da una recente survey condotta da FPA all’interno della propria community, il 91,5% degli intervistati dichiara, infatti, di utilizzare questa modalità per aggiornarsi, con un apprendimento informale, fatto prevalentemente di letture (29,9%) ma anche di frequentazione di convegni (24,2%) e webinar o corsi online (22,9%). Quello della formazione è quindi un tema centrale, strategico, propedeutico a qualsiasi processo di cambiamento e ha trovato, finalmente, una prima reazione ad ottobre con la presentazione, da parte del dipartimento della Funzione Pubblica, del Syllabus che ha lo scopo di dotare le diverse amministrazioni pubbliche di uno strumento per rafforzare le competenze richieste ai propri dipendenti.

Poche novità, invece, sul tema dell’Open Government che oramai sembra relegato nell’ambito degli incontri internazionali, invece che ispirare politiche nazionali e locali. Purtroppo, lo scrivemmo ad inizio anno, oramai la collaborazione, terza gamba dei tre principi dell’open government, è scomparsa dai documenti ufficiali dove invece si parla di trasparenza, partecipazione e cittadinanza digitale, tradendo così un approccio vecchio e insostenibile: quello di una PA bipolare, magari per alcuni versi illuminata, ma sempre come cosa “altra” rispetto alla molteplicità degli attori sociali. Al contrario, una PA abilitante non può che scaturire dalla collaborazione dei diversi attori coinvolti. Tema, questo, che è stato trainante dell’ultima edizione di FORUM PA, grazie anche alla partecipazione di Stephen Goldsmith che ha introdotto e condiviso i temi legati alla collaborative governance. Unico elemento di rilievo in merito all’Open Government proviene dal mondo degli Open Data: l’Open Data Maturity Report colloca quest’anno l’Italia al 4° posto (4 posizioni in più dell’anno precedente) e conferma la posizione tra i “trend-setter”. L’indice DESI, che complessivamente ribadisce il ritardo del Paese nel percorso di digitalizzazione, in materia di Open Data registra un avanzamento dal 19° all’8° posto. Un avanzamento, che evidenzia e ribadisce il ruolo chiave che hanno assunto le community territoriali impegnate sempre di più nella creazione di una domanda di dati di qualità.

Il territorio, d’altronde, continua ad essere il contesto dove l’innovazione trova le condizioni maggiormente favorevoli per diffondersi coniugando, nelle realtà più avanzate, sperimentazione di nuovi modelli di governance, visione di futuro e capacità di innovazione tecnologica. Non a caso, quest’anno, nel presentare la sesta edizione del nostro rapporto sulle città abbiamo messo a punto una definizione che tenesse conto dei nuovi paradigmi che stanno orientando la dimensione territoriale. La Smart Sustainable, Responsive City è la città che fa ricorso alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per produrre, elaborare e condividere informazioni così da prendere prontamente le migliori decisioni per portare avanti processi di innovazione istituzionale, culturale e organizzativa per migliorare la qualità della vita, i livelli di occupazione, la competitività delle generazioni attuali e future e garantendone la sostenibilità economica, sociale e ambientale. Inutile dire che questa prospettiva di analisi conferma una geografia del territorio che ben conosciamo, che vede Milano prima fra le città e il Paese tagliato in due, con il Sud ancora lontano dalle dinamiche del resto d’Italia. Le prospettive di cambiamento però ci sono e l’anno che si è appena concluso dimostra che, a fronte di un nuovo ciclo di trasformazione tecnologica che vede protagonisti i big data, le reti di sensori, l’Internet of Things e le smart grid, è possibile mettere a punto strategie di risposta più efficaci e veloci. Il nostro Cantiere Dati & IOT per i servizi pubblici locali è stato luogo di confronto su questi temi e ha permesso di evidenziare la necessità, da parte delle amministrazioni, di fornire servizi smart ai propri cittadini e di monitorarne l’erogazione in maniera costante grazie alla collaborazione con i gestori dei servizi stessi. Un approccio portato avanti, ad esempio in Emilia-Romagna da Lepida, con l’obiettivo di raccogliere dati da migliaia di nuovi sensori, collocati in posizioni strategiche, e renderli disponibili sia ai proprietari dei sensori sia a ogni articolazione della pubblica amministrazione per finalità istituzionali e di interesse pubblico.

La scarsa capacità di innovazione discende spesso dalla scarsa capacità di spendere e di investire e di usare la leva degli appalti pubblici per il rilancio dell’economia. Lo abbiamo scritto nel testo: l’incompetenza fa più danni della corruzione. Il nuovo Codice degli appalti ha molti difetti ma anche moltissime potenzialità. Il Governo attuale ha individuato come azione prioritaria una nuova riforma del Codice, ma azzerare l’esistente sarebbe dannoso perché condurrebbe ad una nuova stagione di incertezze. D’altronde i dati Consip, pubblicati a dicembre del 2018, sul valore dei contratti conclusi dalla pubblica amministrazione attraverso gli strumenti di acquisto messi a disposizione dalla centrale acquisti, dimostrano che qualcosa si muove, registrando incrementi importanti da un mese all’altro.

A proposito di spesa pubblica, il 2018 ha rappresentato il primo vero banco di prova per misurare la crescita della capacità amministrativa dei soggetti pubblici attuatori. Per la prima volta in questo ciclo di programmazione è stata effettuata la verifica intermedia del raggiungimento dei target di spesa fissati dall’UE e legati al meccanismo del disimpegno automatico (N+3), in base al quale i fondi stanziati per i progetti e non spesi dopo il terzo anno dal loro impegno verranno persi. Ad essa si è aggiunta la verifica sul raggiungimento degli indicatori di risultato che compongono il cosiddetto Performance framework, al quale è legata la distribuzione di una riserva di programmazione del 6%, pari a 3 miliardi di euro. Nella seconda parte dell’anno è scattata una vera e propria corsa contro il tempo da parte di tutte le amministrazioni coinvolte. Se a giugno 2018 la stima del rischio di disimpegno era di quasi 1 miliardo di euro, i dati pubblicati il 2 gennaio dall’Agenzia per la coesione territoriale ci dicono che l’Italia ha superato ampiamente le soglie di spesa previste al 31 dicembre e che dei 51 Programmi Operativi, solo 3 non hanno raggiunto gli obiettivi. Complessivamente la spesa sostenuta e certificata alla Commissione europea è pari a 9 miliardi e 748 milioni di euro. Il connesso livello del tiraggio delle risorse comunitarie a valere sul bilancio UE si attesta a 6 miliardi e 190 milioni di euro pari al 118% del target fissato a 5 miliardi e 235 milioni. Il 2018 ha offerto anche uno sguardo su quello che siamo stati capaci di fare in passato. A luglio 2018, la Commissione Europea ha, infatti, pubblicato, i primi indicatori di impatto relativi alla Programmazione 2007-2013. Non dati in termini di output (quanto abbiamo speso e se siamo riusciti a portare a termine i programmi), ma di outcome, e cioè di benefici concreti e tangibili. Di seguito alcuni dati rilevanti: 88.934 i posti di lavoro complessivi dei quali 21.000 nelle PMI, 5.608 nel settore della ricerca e 4.587 nel turismo. Non solo posti di lavoro ma anche infrastrutture fisiche – 643 Km di strade e 2.260 Km di ferrovie ammodernate – e infrastrutture digitali, con quasi 3 milioni di cittadini raggiunti dalla banda larga. Per la competitività del sistema imprese: 5.758 start up finanziate, 82.905 progetti di investimento per le PMI e 2.748 progetti di cooperazione tra imprese ed Enti di Ricerca.

Ragionando ancora sugli outcome, e cioè sui benefici concreti, gli investimenti sull’attuazione dell’Agenda Digitale italiana non sembrano aver ancora portato a risultati concreti. I dati mostrano un’incompletezza dell’offerta e una decisa debolezza nella domanda, a dimostrazione del complessivo ritardo, prevalentemente culturale, nell’individuare nei processi di trasformazione digitale opportunità di crescita. L’edizione 2018 del DESI Report e dell’eGovernment Benchmark parlano chiaro. Secondo quest’ultimo, l’Italia si attesta appena sotto la media UE per disponibilità di servizi pubblici digitali (58% contro 63%), ma si colloca all’ultimo posto per l’utilizzo da parte dei cittadini: solo il 22% degli italiani interagisce online con la pubblica amministrazione, contro una media europea del 53%. Rispetto ai grandi processi di digitalizzazione pubblica, SPID ha conosciuto una crescita notevole nell’ultimo anno, traguardando a dicembre i 3 milioni di identità digitali rilasciate (1 milione in più rispetto al 2017). Un numero però ancora lontano dalla massa critica necessaria a garantire il pieno dispiegamento del sistema. Sono invece più di 17.000 gli enti aderenti a PagoPA (pari al 73,8% del totale), ma meno di 14.000 quelli che hanno effettivamente concluso la procedura di attivazione, e addirittura meno di 3.000 quelli con almeno un pagamento andato a buon fine. ANPR ha ormai superato i 1.000 Comuni subentrati, attestandosi a dicembre a quasi 16 milioni di cittadini presenti in anagrafe unica, più di 2.000 invece i Comuni in presubentro. Accanto ai ritardi strutturali, in termine di penetrazione delle soluzioni tecnologiche, un ventaglio di iniziative che stentano a fare sistema. Per prima cosa, è possibile fare un check-up dello stato di attuazione del Piano triennale, il documento strategico redatto da AgID e Team digitale a maggio 2017, articolato in 67 azioni, che prevedono complessivamente 108 risultati da raggiungere entro la fine del prossimo anno. Secondo le rilevazioni dell’Osservatorio Agenda Digitale, attualmente 45 risultano completati, 8 sono in fase di completamento e 32 sono in ritardo rispetto alle scadenze previste (i restanti 23 non prevedono scadenze specifiche). Tra le più importanti azioni realizzate quest’anno: pubblicazione dei primi due capitoli del nuovo modello di interoperabilità, conclusione della 2° fase del censimento del patrimonio ICT delle PA, avvio della procedura per la qualificazione dei servizi cloud Csp (Cloud Service Provider) e SaaS (Software as a Service). Da segnalare, ancora, il deciso passo in avanti per il presidio dei processi digitali all’interno delle istituzioni. Nell’ottobre del 2017, la Commissione di inchiesta sulla digitalizzazione della PA presieduta da Paolo Coppola aveva messo in evidenza i gravi ritardi accumulati dalle amministrazioni italiane nell’attuazione dell’art. 17 del Codice dell’Amministrazione Digitale, innescando un vivace dibattito tra gli addetti ai lavori sulla nuova figura del Responsabile per la transizione digitale. Quasi un anno dopo, la circolare n. 3 del 1° ottobre 2018 adottata dal Ministro Bongiorno ha riportato sotto la luce dei riflettori la questione. Nella circolare si ribadisce infatti l’importanza dell’individuazione della figura del Responsabile per la transizione digitale ai fini della crescita digitale italiana, e si annovera l’applicazione dell’art. 17 del CAD da parte di tutte le PA tra le azioni a cui il nuovo Governo intende dare corso nei prossimi mesi. Ancora, è da segnalare il percorso che si sta portando avanti nel campo del mobile friendliness: l’intervento principale del 2018 ha riguardato il lancio del progetto io.italia.it, l’app con la quale il cittadino potrà interagire con la PA ricevendo messaggi, documenti e notifiche delle scadenze e chiedendo informazioni e certificati. Infine, il 2018, è stato anche l’anno della pubblicazione del Libro bianco sull’Intelligenza Artificiale nella PA, una prima e fondamentale riflessione su come sfruttare al meglio le opportunità offerte dall’IA per sviluppare servizi pubblici sempre più a misura di cittadino. Riflessioni che dovranno ora tradursi in una vera strategia nazionale sul tema, che valorizzi anche le prime esperienze e sperimentazioni realizzate sul territorio.

Questa incertezza complessiva nel riconoscere la centralità dei processi di innovazione si riversa inevitabilmente sulle attività di trasformazione digitale in settori specifici, anche centrali come quello della sanità. Il nostro Sistema Sanitario Nazionale, come è noto, è stato oggetto negli anni di notevoli restrizioni soprattutto nelle Regioni sottoposte alla disciplina di rientro (attualmente ne rimangono 7). Scarsità di risorse, incremento della longevità e perdurante crisi economica stanno incidendo sull’accesso alle prestazioni e sull’integrazione dei servizi tra ospedale e territorio, con il rischio di acuire le diseguaglianze sociali e territoriali. Purtroppo, fino ad oggi, è stato debole e frammentato il contributo dell’innovazione tecnologica nel fornire risposte ai nuovi bisogni di salute e alla domanda di facilità di accesso ed efficienza del SSN. I risultati dell’Osservatorio ICT in Sanità del PoliMI parlano chiaro: a fronte di una crescita del 2% della spesa per la Sanità Digitale, 8 cittadini su 10 non usano ancora i servizi sanitari digitali. Cresce la spesa per la telemedicina, ma non la sua diffusione. La maggior parte dei cittadini preferisce accedere di persona a consulto medico (86%), pagamento delle prestazioni (83%) e ritiro dei referti (80%). Solo il 15% interagisce con il medico via email, il 13% via sms e il 12% via whatsapp. Più digitali i medici: il 77% tra gli specialisti e l’83% dei medici di famiglia usano l’email, il 52% e 63% whatsapp per scambiare dati, immagini e informazioni. Impressionanti i costi complessivi del “non digitale” in sanità: oltre 5 miliardi di euro di impatto, se l’80% dei cittadini effettuasse online il ritiro di documenti clinici, la richiesta di informazioni, la prenotazione e il pagamento di viste ed esami. D’altronde, la leva digitale avrà sempre più un ruolo determinante nella messa a punto di risposte efficaci ai nuovi bisogni di salute espressi dai cittadini. È auspicabile, quindi, che l’incremento delle risorse destinate alla spesa sanitaria previsto dalla legge di bilancio sia rivolto prioritariamente allo sviluppo di cultura e soluzioni digitali (cartella clinica elettronica, fascicolo sanitario elettronico, servizi al cittadino, telemedicina, big data analytics e intelligenza artificiale) nel supportare le decisioni cliniche, alimentare l’appropriatezza, evitare sprechi e possibili abusi.

In questo contesto ancora contraddittorio, cosa ci possiamo aspettare dall’anno appena cominciato?

La prima risposta è da cercare in una governance del sistema dell’innovazione che sicuramente non ha aiutato la crescita del Paese. L’anno appena trascorso ha registrato due importanti cambiamenti alla testa dell’AgID e del Team per la Trasformazione Digitale, guidati da due persone di grandissimo valore con un’esperienza della PA non teorica ma sul campo. Teresa Alvaro e Luca Attias sanno di cosa stanno parlando, perché hanno dedicato buona parte della loro vita professionale non a parlare di innovazione nella PA, ma a promuoverla e a sostenerla in prima persona. Ma sono stati messi in condizione di operare al meglio? Prevarrà ancora la logica bipolare, binaria, a tratti quasi manichea, spesso alimentata dalla politica, degli anni precedenti, o si arriverà a una chiara definizione dei rispettivi ruoli? La risposta a questa domanda farà la differenza non solo per la PA, ma per il Paese intero.

La seconda risposta è da ricercare tutta all’interno del settore pubblico, alle condizioni che possono metterlo in grado di diventare soggetto abilitante e attivo della crescita e dello sviluppo del Paese. Per approfondire e favorire questo percorso come FPA, nel corso del 2018, abbiamo creato due importanti occasioni di confronto e di approfondimento: la realizzazione del Libro bianco sull’innovazione della PA e l’indagine sui principi delle riforme.

Il Libro bianco di FPA nasce con l’obiettivo di definire la nuova Agenda per l’innovazione della PA italiana, a partire dal contributo di chi su questi temi si confronta ogni giorno: dirigenti e dipendenti pubblici, rappresentanti di aziende che lavorano con le amministrazioni, associazioni della società civile, studiosi e ricercatori che hanno partecipato al percorso collaborativo proposto da FPA. La maggior parte dei commenti arrivati al Libro bianco si è concentrata proprio nella sezione dedicata ai “Nuovi processi per la PA abilitante”, soprattutto nei capitoli dedicati al pubblico impiego e ai nuovi modelli organizzativi. Le raccomandazioni parlano prima di tutto della necessità di promuovere: una scelta di dirigenti capaci e motivati, cambiando radicalmente le modalità di accesso e di carriera; un processo di valutazione che sia di accompagnamento alla crescita professionale; un reale, flessibile e stimolante riconoscimento del merito e una valorizzazione dei talenti in un ambiente in cui è possibile imparare e crescere; un costante incoraggiamento alla sperimentazione; una nuova intelligente e “agile” modalità di lavoro; la scoperta e la valorizzazione del sapere implicito nelle persone e nelle organizzazioni. Molto partecipata anche la discussione sulla “Trasformazione digitale della PA” in cui si segnala, in particolare, l’esigenza di definire una chiara governance dell’innovazione, che consenta di coordinare la transizione al digitale dei tanti Enti che erogano servizi pubblici, attraverso la razionalizzazione delle soluzioni e la condivisione delle competenze e delle risorse. In questo senso, è fondamentale organizzare una guida forte, capace di dare ascolto ai bisogni dei diversi territori e degli svariati stakeholder (pubblici e privati) che devono essere coinvolti nel processo di trasformazione digitale della PA.

La seconda occasione l’abbiamo creata tramite un’indagine che ha coinvolto la nostra community proprio per esplorare quegli ambiti o punti di vista, anche contrastanti, figli di una visione incerta e spesso contraddittoria della stessa funzione della PA. Una funzione mai del tutto chiarita, sia rispetto al mercato, inteso a volte come male assoluto, a volte come campione da imitare anche nelle sue spinte meno nobili all’efficienza; sia rispetto ai cittadini, che oscillano tra l’essere intesi come clienti, come utenti, come pazienti, ma che difficilmente vengono correttamente considerati come “gli azionisti” della PA, portatori sì di bisogni, ma anche e sempre più spesso di saperi e di soluzioni da ascoltare e condividere in un processo trasparente di collaborazione; sia infine verso la politica, in una relazione sempre molto stretta, ma spesso burrascosa e a volte rancorosa, fatta di reciproche accuse di violazione dei confini. Di seguito, le affermazioni che hanno ottenuto il maggior consenso.

1. L’ascolto dei cittadini è il punto di partenza per creare un domani condiviso. Su questo si deve fondare il nuovo corso delle politiche pubbliche (91,1%).

2. Solo un coraggioso switch-off che renda obbligatorio il digitale piuttosto che la carta può portare ad una trasformazione digitale della PA che deve includere processi, cultura, atteggiamento verso il lavoro e verso l’utenza. Certo per i non digitalizzati vanno previsti canali assistiti, ma la carta deve scomparire del tutto e da subito (71,7%).

3. La trasparenza non può avere né se né ma, deve essere “total disclosure” e le amministrazioni devono organizzarsi per rispondere a tutte le richieste dei cittadini che sono i “padroni di casa” che hanno diritto di sapere come vengono spesi i loro soldi (68%).

4. La necessaria innovazione nella PA non può che avvenire attraverso un accompagnamento che sia “nudge”, spinta gentile, e che preveda più manuali che norme, più formazione che imposizione, più premi che sanzioni (63,9%).

5. I cittadini devono contribuire alla valutazione dell’operato dei dipendenti della PA. L’audit civico deve essere promosso e deve entrare nella valutazione individuale di ogni dirigente o impiegato che abbia contatti con il pubblico (63,7%).

6. È opportuna una riduzione a casi marginali del criterio del “silenzio assenso” perché è troppo pericoloso per l’interesse pubblico. Al limite si deve porre maggiore attenzione alla velocità di una decisione che deve comunque essere presa dalla PA perché garante (62,1%).

7. La valutazione degli impiegati pubblici deve essere basata non sull’efficienza (output), ma sull’efficacia (outcome) ossia sull’effettivo impatto dell’azione pubblica a cui contribuiscono sulla vita dei cittadini e delle imprese. È inutile misurare un impiegato dei servizi per l’impiego rispetto a quante domande evade, ma piuttosto va misurato sul miglioramento del tasso di occupazione della comunità in cui opera (60,5%).

Emerge quindi una forte domanda di razionalizzazione, una domanda di efficienza delle pubbliche amministrazioni nello svolgere le loro funzioni così da abilitare i processi di innovazione. Una domanda dalla quale è difficile prescindere, ma la cui soddisfazione potrebbe non essere sufficiente. Le PA di cui abbiamo bisogno ai livelli nazionale e locale devono essere soggetti attivi e proattivi di una visione di sviluppo da condividere con i diversi attori dell’innovazione: nel presente migliorando la qualità della vita dei cittadini e delle imprese e per il futuro, contribuendo ad uno sviluppo del Paese che sia sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico secondo i principi e gli obiettivi (i 17 SDGs) dell’Agenda 2030.

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