I digital divide fra la PA di oggi e quella 2.0

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Dopo quello sugli open data e quello sul G-cloud, pubblichiamo il terzo e ultimo focus curato da Marco Fioretti che affronta questa volta il tema del digital divide, anzi dei “divari digitali”…espressione non a caso utilizzata al plurale. Diversi sono infatti – sottolinea Fioretti – i fattori che ancora separano la PA di oggi da una sua auspicale “versione 2.0”. Non ultimi, fattori tutti interni alla PA, che possono, anzi devono, essere affrontati senza necessariamente aspettare che la banda larga copra il cento per cento del territorio o che tutti i cittadini scoprano il vero potenziale di Internet. Una riflessione che apre la strada a molti dei temi che verranno affrontati nel corso della prossima edizione di FORUM PA (16-19 maggio, Nuova Fiera di Roma).

17 Aprile 2012

Articolo FPA
Dopo quello sugli open data e quello sul G-cloud, pubblichiamo il terzo e ultimo focus curato da Marco Fioretti che affronta questa volta il tema del digital divide, anzi dei “divari digitali”…espressione non a caso utilizzata al plurale. Diversi sono infatti – sottolinea Fioretti – i fattori che ancora separano la PA di oggi da una sua auspicale “versione 2.0”. Non ultimi, fattori tutti interni alla PA, che possono, anzi devono, essere affrontati senza necessariamente aspettare che la banda larga copra il cento per cento del territorio o che tutti i cittadini scoprano il vero potenziale di Internet. Una riflessione che apre la strada a molti dei temi che verranno affrontati nel corso della prossima edizione di FORUM PA (16-19 maggio, Nuova Fiera di Roma).Introduzione Che significa PA 2.0? Quante barriere digitali ci sono? Mancanza di banda larga? Abitudine a lavorare separati dai cittadiniIl burocratese Documenti e pratiche, ovvero mancanza di interoperabilità vera Incompetenza informatica e formazione sbagliata Mancanza di chiarezza e comunicazione fra centro e periferia Timore dello switch off Rapporto confuso con i social network Altre best practice e conclusioniScarica l’articolo integrale in formato pdfIntroduzioneIl termine Digital Divide indica qualsiasi divario o barriera fra persone, o fra un gruppo di persone e un loro diritto, creato dall’assenza o presenza di tecnologie digitali, o comunque direttamente legato ad esse. L’aggettivo “2.0”, ancora più generico, indica qualsiasi cosa sia completamente rinnovata rispetto alla sua versione precedente (“1.0”).Questo dossier esamina quali divari digitali esistono fra le PA di oggi e le loro “versioni 2.0”, nonché alcuni strumenti e azioni per superarle, a partire da tre considerazioni:1.   il tema è rilevante e urgente anche – se non soprattutto – per le piccole PA, perché “lo sviluppo capillare della cultura digitale tra la cittadinanza è una priorità [in cui] un ruolo di punta spetta ai Comuni e alle amministrazioni più vicine ai cittadini” (dal Manifesto Amministrare 2.0);2.   il divario digitale ha varie forme e cause. Qui diamo deliberatamente più spazio a quelle a nostro avviso meno note; 3.   le barriere in questione stanno creando problemi anche internamente alla PA. È quindi innanzitutto lì, forse prima ancora che nei rapporti esterni, che vanno riconosciute e abbattute. Che significa PA 2.0?Riprendendo in parte alcune definizioni di Stefano Epifani, professore universitario alla Sapienza di Roma e tra i promotori dell’Associazione Italiana per l’Open Government, potremmo dire che essere 2.0 per una PA significa:
  • rinunciare al controllo completo: accettare che (non tutte) le proprie attività sono riti visibili e controllabili solo internamente;
  • “essere dove si trova la gente”: per sapere di cosa i cittadini (o le altre PA con cui si lavora…) hanno effettivamente bisogno e comunicare meglio;
  • disintermediare: per lavorare più velocemente ed efficacemente;
  • non permettere l’interattività con i cittadini, ma volerla.
Se “2.0” significa questo, è evidente che la PA aveva bisogno di questa trasformazione da ben prima che nascesse il mondo digitale e che anche i “divari” che ne ostacolano la realizzazione vengono da molto lontano. Un partecipante all’evento on line InnovatoriJam 2011 li ha spiegati così: la nostra PA è ancora militarizzata. Un dipendente pubblico si chiama pubblico “ufficiale” come nell’Esercito… se non si passa da pubblico ufficiale a public servant, cambieranno tutto per non cambiare niente.È per questo che, forse, più che di barriere digitali dovremmo parlare di barriere contro il digitale. Certe tecnologie hanno solo reso economicamente e praticamente possibile, per gli utenti o dipendenti PA “consapevoli ed esigenti” (riprendendo anche qui una definizione di Epifani), soddisfare esigenze umane e civiche esistenti da sempre come:
  • risparmiare e far risparmiare tempo, fatica e denaro;
  • ridurre lo stress sul luogo di lavoro;
  • migliorare l’immagine della propria amministrazione all’esterno, e la fiducia in essa dei cittadini;
  • offrire i servizi e le relazioni che servono davvero, misurandone costantemente l’efficacia per aggiustare continuamente il tiro;
  • esprimersi, operare e collaborare nel modo più efficace.
Quante barriere digitali ci sono?La PA italiana sembra avere, con l’essere 2.0 grazie alle nuove tecnologie, lo stesso rapporto difficile e inefficiente del paese in cui opera. Un paese dove:
  • il 39% della popolazione tra i 16 e i 74 anni non si è mai collegata al Web (dati Eurostat da Corriere della Sera);
  • quasi un terzo degli Italiani che ha usato Internet nel 2010 non l’ha fatto per trovare informazioni su beni e servizi (sempre dati Eurostat – vedi tabella qui sotto);
  • la “mancanza di capacità” e la convinzione che “Internet è inutile” nel 2008 superavano di un ordine di grandezza le altre cause di esclusione digitale menzionate nel Rapporto sull’innovazione nell’Italia delle Regioni 2010;
  • secondo altri dati ISTAT riassunti da Linkiesta, gran parte degli italiani ancora preferisce “regolare i propri rapporti con la PA alla vecchia maniera: in fila allo sportello”. 
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Ma quali sono davvero queste barriere, e a cosa sono dovute, almeno nella PA?Mancanza di banda larga?La barriera digitale di cui forse si parla più spesso è la penetrazione della banda larga. Il ritardo dell’Italia nella diffusione delle reti a banda larga rispetto a paesi come la Francia o la Germania è di circa il 10% e costa all’Italia dall’1 all’1,5% del Pil. Questa la stima fatta da Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione europea responsabile per l’Agenda digitale, nel suo intervento al primo Italian Digital Agenda Annual Forum di Confindustria Digitale, che si è svolto a Roma l’11 aprile scorso. Non dubitiamo che portare davvero la banda larga in tutta Italia sarebbe utilissimo per la sua crescita (non solo o non necessariamente economica). Detto questo, poiché FORUM PA offre già molte risorse su questo tema, qui ci limitiamo a osservare che la banda larga non va nemmeno sopravvalutata o utilizzata come alibi per non fare altri passi. Diverse barriere digitali presenti nella PA sono poco o nulla influenzate dalla disponibilità di banda larga. Vediamole una per una.Abitudine a lavorare separati dai cittadiniQuesta barriera – digitale solo nel senso che le PA usano i computer e la Rete per crearla – consiste nel rifiutare, o almeno ignorare sistematicamente, la comunicazione e il rapporto col cittadino. Un commentatore del già citato articolo de Linkiesta scrive che se gli Italiani “preferiscono” lo sportello, è colpa della “totale inefficacia della comunicazione elettronica con la PA. Personalmente ho mandato domande specifiche via PEC (cioè comunicazioni con valore di raccomandata con ricevuta di ritorno) a Comune e Sovrintendenza di Napoli e Università Federico II e non ho mai, neanche dopo mesi, ricevuto risposta. Nemmeno evasiva o generica… proprio niente di niente!”Quanti Comuni Italiani hanno sul proprio sito indirizzi email, scrivendo ai quali si ottiene solo una notifica automatica da cui si evince che quella casella è piena perché non viene letta da mesi?Se fondi, infrastrutture e competenze scarseggiano, non si può certo pretendere che venga fatto tutto a regola d’arte. Tuttavia certe carenze non sono una ragione valida per non usare regolarmente strumenti digitali certo meno “2.0” dei social network, ma comunque efficaci come la posta elettronica.Il burocrateseNel 2007 Alfredo Fioritto, professore di Diritto amministrativo all’Università di Pisa, in un intervento a FORUM PA si chiedeva: perché la PA non vuole parlare semplice? Oggi, eliminare il burocratese è ancora più urgente, non solo per il diffuso analfabetismo di ritorno (che non è certo colpa di Internet…), ma perché proprio questo approccio crea digital divide non trascurabili.Moltiplicando le informazioni accessibili, il Web diminuisce la soglia d’attenzione anche per chi non ha i problemi appena citati: per essere davvero accessibile all’utente medio del Web il burocratese deve essere pesantemente rimaneggiato, ai limiti della riscrittura” (Nielsen e Loranger, “Web usability 2.0. L’usabilità che conta”, Apogeo, Milano, 2006). Siti e comunicazioni ufficiali on line inutilmente astrusi mantengono alto il numero di cittadini che continuano a ricorrere agli sportelli.Peggio ancora, il burocratese confonde anche il software che dovrebbe indicizzarlo. Se PA e cittadini si parlano poco via Internet è anche perché (quando arrivano on line…) essendo scritti in un’altra lingua i loro documenti ufficiali appaiono di rado in cima alle ricerche fatte dai cittadini.Questo divario può essere eliminato solo alla radice, cioè scrivendo semplicemente. Per provarci si possono usare guide come quella della Provincia di Perugia, la sintesi per il Web della Direttiva ministeriale sulla semplificazione del linguaggio delle PA e le macro gratuite per OpenOffice o Word che calcolano automaticamente la leggibilità di un testo con formule come l’Indice di Gulpease. Provate ad applicarle ai documenti che scrivete!Documenti e pratiche, ovvero mancanza di interoperabilità veraCerto, nessuna PA moderna userebbe deliberatamente computer o sistemi operativi incapaci di connettersi a Internet. Però non dovrebbe nemmeno usare programmi o procedure incapaci di interagire direttamente con altri software della stessa o di altre PA, anche se di fornitori diversi.Questa interoperabilità diretta fra programmi software è cosa ben diversa da quella fra i loro utenti. L’incapacità di distinguerle è un altro divario digitale di cui non si ha ancora sufficiente consapevolezza.L’interoperabilità software più elementare si ha quando un impiegato della PA X può inviare un file ai colleghi della PA Y con la certezza che questi potranno aprirlo, leggerlo e riusarne il contenuto nei loro file o database… il tutto manualmente. Nulla di male, ma fermarsi a questa interoperabilità manuale è un’altra barriera seria alla vera efficienza digitale.Più che da limiti tecnici, questa barriera è costituita dall’assunzione, quasi un dogma inespresso, che “documenti”, “certificati”, “moduli”, “pratiche” e relativi “iter” siano oggetti intoccabili, che devono rimanere singoli e sempre ben distinti anche quando diventano digitali: ieri fogli di carta, oggi singoli file.Chi scrive ha individuato un esempio perfetto di questo problema in una procedura dell’AGCOM: invece di offrire moduli Web che consentano di inserire manualmente ogni dato grezzo una volta sola in un database comune, quella procedura è solo una replica fedele di quella predigitale, ovvero una serie di operazioni manuali su N file, anziché altrettanti fogli di carta.L’interoperabilità “giusta”, invece, è quella che lascia fare da soli ai computer tutto il possibile, liberando le risorse umane per altri compiti. Quando copiate dati da un file all’altro, chiedetevi sempre come quell’operazione potrebbe essere automatizzata e, soprattutto, se avete davvero bisogno di quei file!Procedure o documenti digitali che costringono, senza ragioni oggettive, a confrontare o reinserire dati manualmente in tanti file separati sono in realtà barriere digitali da eliminare. Il modo per riuscirci è passare ad ambienti di lavoro interamente Web-based per la gestione documentale e contabile, partendo dal consolidamento dei server.Incompetenza informatica e formazione sbagliataCome si può leggere su Tuscia Innovazione, il portale del Coordinamento Territoriale per l’Amministrazione Digitale della provincia di Viterbo, “la differenza di competenza nell’uso degli strumenti informatici, che esiste tra il personale degli uffici pubblici, è forse il tipo di divario digitale che, maggiormente, compromette o blocca l’esito positivo delle politiche di rinnovamento della PA… investire poco nella formazione, che è uno dei pilastri del processo innovativo, è un errore molto grave”.Trascurare la formazione è senz’altro grave, ma continuare a formare su concetti ormai obsoleti (vedi paragrafo precedente) non abbatte alcun divario digitale ancora degno di attenzione.Ormai quasi tutti i dipendenti pubblici italiani hanno già accesso (almeno) a word processor, fogli elettronici, browser e programmi email. Il rapporto e-Gov Italia 2010 a pag 156, ci dice che “in media, nei Comuni sono presenti 84 pc ogni 100 dipendenti e, anche nei territori in cui l’indicatore fa registrare i valori più bassi, è comunque disponibile un pc ogni 2 dipendenti”.Certo, molti di quei dipendenti, e non per propria colpa, sanno a malapena come usare quei pc, ma se ormai è tempo di andare sul G-Ccloud perché i soldi sono sempre di meno, vale la pena di continuare a pagare corsi tipo ECDL, che troppo spesso si riducono a liste di quali bottoni premere in una sola versione di un solo programma desktop?Forse, invece, è il momento di comportarsi come se certe competenze fossero ormai acquisite, impiegando i pochissimi fondi disponibili per insegnarne di più utili, come formati dei file, standard aperti, G-Cloud, Open Data, norme di comportamento sui social network oppure (vedi paragrafo successivo) quali tipi di software per gestione di siti sono più efficienti.Una persona che ha già accesso a computer, come l’impiegato generico di una PA, non va addestrata a pigiare bottoni; va abituata a comunicare efficacemente con i computer e a non usarli per produrre carta.Mancanza di chiarezza e comunicazione fra centro e periferiaQui parliamo del Divide fra quel che le PA potrebbero ottenere lavorando sul Web in maniera coordinata e condivisa e quello che invece (non) ottengono quando mancano comunicazione e collaborazione. Ce lo mostra il sito (ufficiale? ufficioso?) dplmodena.it, legato alla Direzione Provinciale del Lavoro (DPL) di Modena. Ad aprile 2012 quel sito è stato oscurato per alcuni giorni su richiesta del Ministero del Lavoro, “al fine di garantire una rappresentazione uniforme delle informazioni istituzionali”.Ecco alcuni punti per inquadrare il fatto:1.   il sito dplmodena.it esiste dal 2001 sotto un nome di dominio non governativo, il cui contatto è un dirigente di quella Direzione;2.   la pagina Dove siamo contiene orari, indirizzo e contatti dell’Ufficio Relazioni con il Pubblico della DPL;3.   su almeno una pagina del sito (vedi commenti a questo articolo) è presente pubblicità di libri scritti anche da chi l’ha registrato;4.   pur avendo migliaia di pagine e molti collaboratori, il sito sembra gestito con un programma proprietario da desktop, dismesso da diversi anni, senza funzioni di collaborazione via Web. Che fatica! (cfr paragrafo precedente);  5.   per molti critici della chiusura, il sito è una risorsa utilissima, unica e insostituibile per gli addetti ai lavori per mole e quantità delle informazioni;6.   al momento della chiusura, la pagina ufficiale della DPL Modena sul sito del Ministero era invece praticamente vuota, ovvero inutile.Da qui nascono alcune osservazioni e domande:
  • le risorse nella PA per fare cose “2.0” utili su Web ci sono eccome, altrimenti dplmodena.it non avrebbe prodotto migliaia di pagine per un decennio. Perché la PA, in questo caso, non è riuscita a sfruttarle al suo interno?
  • all’interno dei siti ufficiali della PA è senz’altro necessario evitare duplicazioni di sforzi o distrazioni (cfr queste perplessità su InnovatoriPA);
  • ma a chi compete l’effettiva pubblicazione di informazioni in una PA? Solo ai suoi vertici, o a chiunque al suo interno si dimostri disponibile e in grado di farlo, ovviamente in accordo con i vertici stessi?
  • come ogni altra iniziativa del genere, l’intera faccenda è complicata dal copyright dei documenti pubblici in questione. A meno che, come dovrebbe comunque essere, non siano esplicitamente pubblicati come Open Data!
  • qual è, sul Web, la differenza fra ufficiale e ufficioso, o tra pubblico e privato per i dipendenti della PA?
L’ultimo punto è probabilmente il più importante. Pubblicare documenti riservati sarebbe un problema anche su un sito ufficiale, così come lo sarebbe gestire in orario lavorativo e/o con risorse pubbliche un qualsiasi sito privato.Negli altri casi, qual è il problema se un cittadino (fosse anche un dirigente PA) decidesse di impiegare parte del suo tempo per riorganizzare on line come meglio crede un corpus di documenti già pubblici, anche se fosse una duplicazione o ci finissero dentro dei banner? Ma se è quella l’unica veste che si può o vuole dare al sito, perché crearsi problemi dandogli nome e dati di contatto ufficiali?A queste domande è opportuno trovare urgentemente risposte generali chiare, pubbliche, uguali in tutto il Paese, condivise fra centro e periferia. Altrimenti il divario fra quel che le PA potrebbero offrire ai cittadini, incanalando via Web le energie disponibili dentro e fuori di esse, e quel che invece attualmente offrono rimarrà invariato.Timore dello switch offAbbiamo superato da poco lo switch off, cioè lo spegnimento, della TV analogica. Ora, si dice, ci vorrebbe lo switch off dello Stato analogico. A nostro avviso questo è già possibile, e raccomandabile, molto più spesso di quanto si creda, anche nei centri che magari non hanno la banda larga: prima passeranno a offrire certi servizi solo via Web, prima potranno ottimizzare l’uso di risorse sempre più scarse.Il trucco è… non preoccuparsi troppo di come faranno a ritirare i certificati coloro che non hanno accesso a Internet! Non perché non abbiano diritti, ma perché “via Web” non significa necessariamente “via banda larga”.All’atto pratico, chiedere informazioni o un certificato “via Web” significa soltanto farlo attraverso un qualsiasi browser, che gira su un qualsiasi computer. Ora, soprattutto nei piccoli centri con pochi utenti che dovrebbero comunque recarsi di persona in Comune, cosa impedirebbe di mettere quel “qualsiasi computer” nell’atrio, collegato via cavo agli altri computer negli uffici?Facendo così, si ridurrebbero carta, tempi di inserimento dati e carico sui dipendenti, che rimarrebbero comunque a disposizione per aiutare chiunque avesse difficoltà a usare da solo il computer.Il passo successivo potrebbe essere la connessione, con reti civiche wireless a bassissimo costo, di altri terminali in aree “pubbliche” (parrocchie, bocciofile, biblioteche, bar…) aperte anche fuori dagli orari d’ufficio. Tutto questo non è fantascienza, solo una versione ridotta di servizi che esistono già, dai p3@ veneti agli oltre 250 Punti di Accesso Assistito ai Servizi in Toscana: “centri di affiancamento e accompagnamento alla cultura digitale… fondamentali per far conoscere e promuovere l’utilizzo dei servizi di eGovernment”.Rapporto confuso con i social networkI social network rappresentano per la PA piattaforme capaci di trasformare i legami relazionali in uno strumento di crescita, su cui si dovrebbe lavorare ufficialmente (citiamo ancora una volta Stefano Epifani) su quattro livelli:
  • ascolto sistematico, per sapere subito cosa pensano i cittadini;
  • presenza, per comunicazioni ufficiali, poiché sempre meno cittadini cercano o trovano direttamente sui siti istituzionali quanto serve loro;
  • interazione!
  • partecipazione, ovvero coinvolgere i cittadini nella gestione della Cosa Pubblica.
Questo, in teoria. In pratica, il rapporto fra PA italiane e social network è spesso assente o conflittuale, costituendo così un’altra barriera digitale fra la PA e un suo auspicabile futuro “2.0”. Per quanto riguarda le comunicazioni istituzionali, questo è dovuto al timore di avventurarsi in uno spazio non controllato, né controllabile. A questo timore si può ovviare in parte con i moderni software per gestire siti Web, che contengono parecchie funzioni per costruire social network indipendenti, anche se più primitivi di Facebook.Questa possibilità andrebbe valutata seriamente, perché su un sito proprio si può essere social, eliminando le barriere digitali con i cittadini, ma:
  • senza lasciar decidere a Facebook cosa è permesso e cosa no, evitando situazioni sgradevoli come quella in cui si è trovata Groupon;
  • rispettando gli obblighi di legge sulla privacy. A che servono privacy policy conformi a tutte le norme italiane ed europee se poi si dialoga con i cittadini solo su server (esteri) di un’azienda privata straniera?
  • senza abbandonare la presenza ufficiale sui social network pubblici, che rimane necessaria. Con i software moderni è possibile inoltrare automaticamente annunci e altre informazioni su quei network, pur servendosi solo di quello privato per interazione e partecipazione dei cittadini.
Gli altri timori da social network – quelli legati a quando, come e quanto vi partecipino i singoli impiegati – potrebbero essere fugati sia dalla conoscenza di quei network (cfr quanto detto sul riformare la formazione) sia, come a volte si propone o si tenta di fare, da regole ufficiali di condotta. Purché queste regole siano poche, chiare, semplici, pubbliche, meno censorie e più uniformi possibile a livello nazionale. Analizzare quali dovrebbero essere e perché, richiederebbe un volume a parte. Qui ci limitiamo quindi a qualche domanda a tutti i dirigenti delle PA, per stimolare la discussione:
  • quando (non se) un vostro dipendente criticherà voi o l’ufficio anche su Facebook e simili, prima di pensare a misure disciplinari valutate molto attentamente tono ed effettivo contenuto delle critiche: se quello è l’unico modo per individuare presto qualche problema serio, perché non approfittarne, per minimizzare i danni?
  • è opportuno vietare l’accesso a Facebook dall’ufficio per uso personale, considerando che: nell’era degli smartphone è tecnicamente impossibilechi riesce a stare tutto il giorno su Internet per scopi privati forse non dovrebbe smettere di navigare ma… cambiare lavoro? Ovviamente non parliamo di licenziamento, ma del fatto che se una persona non ha altro da fare è perché non viene valorizzata adeguatamente. Anche questo è un caso in cui Internet non crea problemi, ma aiuta a scoprirli;
  • se davvero (per esempio per mancanza di banda larga) la navigazione personale rallenta il sito Web ufficiale o altre attività lavorative, installare filtri che rallentino l’accesso a Facebook o lo consentano solo durante la pausa pranzo è molto più sensato (e utile) del bloccarlo completamente?
Altre best practice e conclusioniEsistono tante tipologie di digital divide: vanno affrontate per prime quelle interne alla PA, senza aspettare che arrivi la banda larga o che tutti gli italiani scoprano il vero potenziale di Internet.Social networking e collaborazione via Web sono possibili e fanno bene anche se sono confinati dentro l’organizzazione. StatusNet, ad esempio, il software libero usato dal portale di microblogging Identi.ca che è secondo solo a Twitter per popolarità, può essere installato anche su Intranet a uso interno. Allo stesso modo e per gli stessi motivi si possono mettere in piedi ambienti identici a Wikipedia con MediaWiki per creare, organizzare e discutere insieme qualsiasi insieme di documenti, prima di pubblicarli su Internet; oppure veri e propri social network interni con programmi come quelli, sempre liberi, citati in questa rassegna.Oltre a far lavorare meglio e ridurre i costi, partire dall’interno permette anche di abituarsi gradualmente a quell’esposizione continua agli altri che è forse l’unica cosa davvero “2.0”. Soprattutto se alle azioni già proposte per abbattere il divario digitale si aggiungono queste altre:
  • chiarire con norme pubbliche chi deve comunicare ufficialmente, come e su quali canali: tutti, o solo alcuni delegati?
  • pubblicare sempre, a meno di problemi di privacy reali, le risposte alle domande dei cittadini;
  • lavorare il meno possibile, ovvero riusare! Collaborare e lasciar collaborare, soprattutto fra piccole PA, è necessario per risparmiare risorse e ottenere risultati più velocemente. Il riuso va fatto a tutti livelli, dal software alle varie policy, magari discutendo insieme on line quelle già esistenti, per armonizzarle e riusare quel che già funziona davvero;
  • misurare l’andamento di tutte queste attività, pubblicando costantemente su Web i risultati.
Tutte queste proposte hanno una cosa in comune: il modo migliore di metterle in pratica è insieme, con linee guida ufficiali e supporto dal centro, ma sono tutte possibili ed efficaci da subito anche in una singola PA, senza grosse spese o permessi dall’alto. Buon lavoro, dunque! *Marco Fioretti, è divulgatore, formatore, scrittore e attivista freelance. Ha curato, tra l’altro, la ricerca “Open Data, Open Society” della Scuola Sant’Anna di Pisa.  <!–![endif]__comment__end__ <!–![endif]__comment__end__<!–![endif]__comment__end__ <!–![endif]__comment__end__<!–![endif]__comment__end__ <!–![endif]__comment__end__<!–![endif]__comment__end__ <!–![endif]__comment__end__<!–![endif]__comment__end__ <!–![endif]__comment__end__

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